A cura di Federico Di Matteo

E’ il 1760, in Europa. Lo sviluppo del motore a vapore segna l’inizio della Prima Rivoluzione Industriale; è il primo passo del welfare occidentale, ma anche il primo passo dello stravolgimento ambientale causato dall’uomo. Il carbone diviene sempre più parte integrante della vita quotidiana, e dalla grezza e polverosa pietra scura si ricavavano olii e gas, più adatti al consumo cittadino.

Esattamente un secolo più tardi, nel 1860, si aprì in Pennsylvania il primo pozzo di petrolio. Questa sostanza era già conosciuta nell’antichità (utilizzata per il famoso Fuoco Greco), ma solo in quel periodo si iniziò a comprenderne le potenzialità: il calore che può sprigionare, il costo produttivo più basso e la sua adattabilità, in quanto liquido, a vari contesti lo portarono velocemente ad essere incoronato “Oro Nero”.

Poliziotto londinese con una mascherina durante la Grande Nebbia del 1952. Fonte: Keystone – Hulton Archive/Getty Images

Avendo a disposizione un simile combustibile fossile pochi anni più tardi, nel 1886, vi fu l’avvento della prima automobile, che cambiò radicalmente la mobilitazione delle persone. Nello stesso periodo si svilupparono sia la distribuzione della corrente elettrica, prodotta da grandi centrali a carbone, sia il riscaldamento condominiale grazie all’utilizzo di caldaie. Le condizioni di vita migliorarono di netto in un tempo brevissimo.

Il mondo occidentale si è man mano abituato a quei confort che oggi riteniamo scontati, e gli sviluppi tecnologici ne hanno abbassato i costi così da favorirne la diffusione in tutti i ceti sociali. Nel primo dopoguerra, grazie all’ormai sviluppata industria petrolifera, la plastica fece il proprio ingresso sul mercato aprendo le porte all’era del consumismo di massa e a tutti i risvolti negativi che ciò ebbe sull’ambiente.

Non sorprende che le emissioni di CO2 in atmosfera siano aumentate esponenzialmente a partire dalla metà del XIX secolo, tanto che il grafico (sotto riportato, che lega emissioni e variazione della temperatura negli anni) è stato definito hockey stick proprio per la sua forma.

Hockey Stick. Fonte: Pinterest

E’ il 1997. A circa due secoli dall’avvento del carbone i primi sintomi del Cambiamento Climatico iniziano ad intimorire le grandi potenze, nonostante fossero ben visibili già da un secolo (basti pensare alla Londra grigia di “fumo e nebbia” descritta da Dickens). La Conference of Parties delle nazioni sigla il celebre Protocollo di Kyoto, da cui derivarono vari provvedimenti tra cui la Carbon Tax in Europa.

Quest’ultima da un lato incentivò le aziende a rendere più sostenibili i propri processi produttivi, ma dall’altro incrementò il fenomeno della delocalizzazione: molte fabbriche furono spostate in paesi poveri dove non solo la manodopera aveva un costo ridotto, ma vi erano anche politiche ambientali meno stringenti. La riduzione delle emissioni europee che si notò nel periodo successivo non fu pertanto dovuta solo ad una svolta green del mercato, ma anche ad uno “spostamento” della CO2 dal Vecchio Continente verso altri stati.

Variazione delle emissioni causate dalle industrie dei 28 paesi europei. Fonte: Agenzia Europea dell’Ambiente

Anche in questo frangente vi furono però risvolti positivi: stati poveri poterono giovare degli investimenti straniere per far crescere la propria economia, ed iniziarono ad accedere ai mercati internazionali; è la nascita degli stati in via di sviluppo, i cui colossi sono India e Cina. Quest’ultimo in particolare è stato bollato negli ultimi anni come uno dei maggiori responsabili delle emissioni a livello globale, e i dati non smentiscono le accuse: il calo del 25% delle emissioni, per il blocco delle ultime settimane a causa del Covid-19, ha portato ad abbattere del ben 6% laproduzione di CO2 livello mondiale.

Come per la Cina, colpevolizzare i paesi in via di sviluppo è un gesto ipocrita: non solo inizialmente abbiamo portato lì le nostre fabbriche, ma in nome dello sviluppo abbiamo bruciato liberamente fonti fossili per due secoli, mentre questi stanno ripercorrendo la stessa strada in poche decadi. Hanno in qualche modo un diritto di inquinare per evolversi come l’Europa ha fatto; per quanto questa “legge del taglione” sia controproducente per l’ambiente, e non sia personalmente d’accordo con essa, non è così semplice (e non ci proverò qui) stabilire se sia legittima o meno.

Fortunatamente, non sembra che si voglia godere fino in fondo di questo diritto: una ricerca condotta da Bloomberg ha evidenziato come queste stiano già puntando sulle energie pulite più di quanto facciano i paesi industrializzati: nel 2017 i 114 gigawatt a zero emissioni introdotti nei paesi in via di sviluppo rappresentano quasi il doppio dei 63 gigawatt di capacità rinnovabile aggiunta alla produzione elettrica delle nazioni industrializzate.

La velocità con cui i paesi in via di sviluppo non solo sono passate da una realtà rurale ad una economia industrializzata, ma stiano già puntando verso un futuro ad impatto zero, evidenzia come il mondo occidentale sia stato (e sia tutt’ora) lento nel modificare le proprie abitudini. Le stime del mondo scientifico non ci concedono altri due secoli per una rivoluzione industriale sostenibile.