Sono bastati quattro giorni a stravolgere le primarie democratiche da cui uscirà il nome dello sfidante di Donald Trump il prossimo 3 novembre. Sabato scorso l’ex vicepresidente Joe Biden era dato praticamente per spacciato: addirittura terzo nel computo dei delegati (15) dietro al 78enne senatore del Vermont Bernie Sanders (45) e all’ex sindaco di South Bend Pete Buttigieg (26) e destinato secondo molti a vedere i propri consensi ulteriormente erosi dalla discesa in campo tardiva del magnate Michael Bloomberg. E invece: le primarie di sabato in South Carolina non l’hanno visto vincere ma trionfare (47% dei consensi contro il misero 20% di Sanders), il temuto effetto-Bloomberg non s’è verificato e gli endorsement di Amy Klobuchar e dello stesso Buttigieg hanno reso chiaro che di qui a giugno sarà testa a testa. Joe contro Bernie: oltre un secolo e mezzo in due e due idee diverse di America.
Sia chiaro: alcune cose si sapevano, non è stato un fulmine a ciel sereno. Per esempio si sapeva che Sanders, come nel 2016, avrebbe faticato non poco a sfondare negli stati del Sud con una forte minoranza afroamericana: il plebiscitario 63% che stanotte i democratici dell’Alabama hanno accordato a Biden è lì a toglierci ogni dubbio. Ma dietro al successo di Sleepy Joe – come l’ha già ribattezzato Trump – non c’è solo la grande capacità di includere le minoranze (figlia anche – non l’ha mai nascosto nemmeno lui – degli 8 anni passati al fianco del primo presidente nero della storia degli Stati Uniti): l’ex numero due di Obama è riuscito a porsi come unica alternativa credibile alla radicalità eterodossa di Red Bernie e come unico candidato in grado di riportare i dem alla Casa Bianca. Ma soprattutto, dopo aver avuto per mesi su di sé l’aura del favorito e averla persa, è riuscito a riappropriarsene.
Dalla sua Biden ha avuto, come detto, anche il sostegno delle due grandi rivelazioni del primo mese di primarie: l’astro nascente Pete Buttigieg e la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, giunta terza a sorpresa tre settimane fa in New Hampshire. Al suo fianco – letteralmente, sul palco di Dallas – anche Beto O’Rourke, deputato texano ritiratosi prima dell’inizio delle primarie ma molto quotato in prospettiva futura. A breve potrebbe seguirli anche Elizabeth Warren, una delle grandi sconfitte della tornata di questa notte: alla 70enne senatrice sono andati appena 26 dei 1.344 delegati messi in palio dal SuperTuesday (14 dei quali conquistati nel suo Massachusetts). Appena meglio è andata a Bloomberg ma 39 delegati e la vittoria nelle sole Samoa Americane non possono considerarsi un bottino soddisfacente per chi ha speso più del doppio di tutti gli altri candidati messi insieme.
E così – è notizia di poche ore fa – dopo poco più di tre mesi di campagna, in cui è riuscito a spendere quasi 600 milioni di dollari, l’ex sindaco di New York è sceso dal treno. Un treno su cui in realtà era salito solo stanotte, visto che per motivi di tempo e per scelta strategica aveva deciso di saltare i primi quattro appuntamenti in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina per concentrare tutte le immani risorse a disposizioni sul secondo martedì più importante dell’anno. Tra lo spot mandato in onda nel bel mezzo del Superbowl (uno slot da 10 milioni di dollari) e il mastodontico apparato messo in campo nei 14 stati al voto, sembrava che per Bloomberg potesse essere la volta buona: il primo a temerlo era proprio Biden che non solo ha scongiurato il pericolo ma ha finito per ricevere il sostegno dell’ex rivale. E al vecchio Joe i quattrini di Mike potrebbero fare parecchio comodo.
A gioire per i risultati della notte, insieme a Biden (vincitore in 10 dei 14 stati al voto e ora in testa nel computo dei delegati, 467 contro i 392 di Sanders), è senz’altro l’establishment del partito che vede allontanarsi – anche se non scemare del tutto – l’eventualità di una brokered convention: con la sola Warren ancora in gioco (chissà per quanto), schiacciata dall’ormai inevitabile dualismo tra i due non più giovanissimi pretendenti, le probabilità che si arrivi a luglio senza un candidato forte della maggioranza assoluta si riduce di molto. Non solo per ovvie ragioni matematiche – meno sono i candidati in gioco più basso è il rischio di “disperdere” voti – ma anche per altrettanto ovvie motivazioni politiche: ormai la partita è chiara. Biden e Sanders, anagrafe a parte, sono come il giorno e la notte e non sarà certo l’endorsement della Warren per l’uno o per l’altro – quando arriverà – a sparigliare le carte.
Già, Sanders. Non si può certo dire che il Supermartedì gli abbia sorriso ma è presto per darlo per finito. È vero che anche a casa sua, in Vermont, ha perso colpi; è vero che in alcuni stati, soprattutto al Sud, non ha proprio visto palla ed è vero che ha faticato anche in quelli a lui più congeniali. Ma non va dimenticato che ha conquistato la California (vera e propria gallina dalle uova d’oro in termini di delegati) e che già tra una settimana avrà modo di rifarsi in alcuni stati che nel 2016 gli avevano accordato la loro preferenza, Michigan su tutti. Per farlo dovrà però dimostrare di saper smuovere le coscienze degli indecisi: finora continua a pagare l’atavica incapacità di allargare il consenso oltre il pur motivato zoccolo duro di sostenitori. La strategia del “tutti contro di me”, benché non priva di fondamento, non sarà sufficiente per la nomination. Trump lo sa e sta alla finestra.