A cura di Riccardo Spinelli
La psicosi del Coronavirus a Milano coinvolge tutti. Da un lato ci sono quelli che la paura di contrarre il virus ce l’hanno eccome, e via con le barricate in casa, l’amuchina, le scorte alimentari e le mascherine. Dall’altro lato ci sono quegli esseri umani che potremmo definire mondani: loro non hanno paura del virus, è un’influenza in fondo, due linee di febbre e passa tutto. La loro è un’altra paura, meno viscerale e più attuale, quella della solitudine. Gli uomini mondani non riescono a trovare gioia nell’occasione di chiudersi in casa a leggere un libro, guardare un film, dormire e pensare. È la paura di non bastarsi da soli. E la chiusura dei bar dopo le 18 per qualche giorno li avrebbe mandati al manicomio, perchè fatemi lavorare pure 12 ore al giorno, ma non toglietemi la mia birretta prima di andare a dormire. In mezzo c’è il mondo che queste paure non le ha o le ha entrambe.
Per tutti sarebbe utile conoscere la vita di Isaac Newton. Come nacquero il genio e le sue scoperte di cui godiamo inconsapevolmente ancora oggi. Riflettere che spesso tra i fatti tragici, tra le crisi, possono nascondersi opportunità.
Nel 1665, quando in Inghilterra scoppiò l’epidemia di peste con 30 anni di ritardo rispetto a Milano, il grande scienziato non fece accorati appelli al sindaco in nome della grande socialità inglese, neanche indignati post su Facebook. Era la peste in effetti, che solo in Inghilterra avrebbe fatto tra le 75 mila e le 100 mila vittime, più di un quinto della popolazione di Londra del tempo. Dopo la chiusura delle università Newton prese le sue robe e scappò da Cambridge per andare a Woolshthorpe, il piccolo villaggio in campagna dove era nato 23 anni prima. Fu in quel soggiorno obbligato che durò quasi due anni, ma libero dalle scocciature dell’università che Newton, rivoluzionando il calcolo matematico, l’ottica e la dinamica, rivoluzionó il mondo.
Fu in camera buia a Woolsthorpe di pochi metri quadrati che Newton capì i segreti della luce e dei colori, tramite un forellino nelle persiane di legno e due prismi. È a Woolsthorpe che Newton elaborò il metodo delle tangenti, il calcolo infinitesimale, inventò le derivate e gli integrali, di cui però scriverà pubblicamente solo diversi anni dopo. E fu passeggiando nella solitudine della campagna del Lincolnshire che Newton iniziò a chiedersi “come funziona il mondo”?, vide forse una mela cadere da un albero e iniziò a pensare alla gravità, quella forza che “si estende fino all’orbita della Luna”.
Per Newton (e per noi) furono due anni cruciali. Tornato a Cambridge, il suo professore Isaac Barrow, che lo aveva praticamente ignorato durante gli anni precedenti alla peste, nel 1669, riconoscendo la crescita intellettuale del giovane studente, gli cedette la prestigiosa cattedra lucasiana di matematica. Newton aveva 27 anni. Diversi anni dopo, in una lettera mai spedita allo scrittore Pierre des Maizeaux, Newton avrebbe ricordato sé stesso nella “quarantena” prolungata di Woolsthorpe come “nel fiore dell’età creativa”, immerso nei pensieri sulla matematica e sulla filosofia come mai sarebbe stato in seguito. Nessun accenno ai rimorsi per gli apericena saltati.