Come il Diavolo di Baudelaire anche le mafie si adoperano, quasi ossessivamente, affinché non ne si riconosca l’esistenza, che non se ne parli affatto, così da tenere il più lontano possibile le luci dei riflettori. Non siamo dinnanzi a un fenomeno che nasce e si sviluppa nella clandestinità, per sua definizione prettamente temporanea, bensì siamo al cospetto di un’entità plasmatasi nell’ombra e che all’interno di essa spende il suo intero arco vitale, coperta e perfettamente integrata nel contesto in cui si dirama.
Per questa ragione, ogniqualvolta un mafioso venga identificato come tale la sua prima mossa è quella di negare trasversalmente non solo la sua appartenenza alla consorteria criminale, ma addirittura l’esistenza di una simile associazione: la mafia non esiste, non può e non deve farlo.
Così in passato si utilizzava l’espediente di diluirne il concetto all’interno di discorsi il più delle volte deliranti in cui l’aggettivo mafioso diventa sinonimo di fiero, educato, cortese, deciso, svuotandolo del suo reale significato. Vogliamo così riportare qui le parole di Calogero Vizzini e Genco Russo, due figure di primissimo piano della tradizione mafiosa siciliana, poiché costituiscono un esempio magistrale dell’estrema oculatezza con cui i membri della criminalità organizzata badano al proprio lessico quando interpellati circa l’esistenza del fenomeno mafioso. Così Vizzini:
Così, invece, Russo:
Essere mafiosi per Vizzini e Russo non comporterebbe, pertanto, l’appartenenza ad alcuna associazione criminale specifica bensì denoterebbe un particolare comportamento, nobile e rispettoso, che nulla ha a che vedere con quell’immagine di violento delinquente con cui tentano di etichettarli. Mafioso sì, quindi, ma Mafia assolutamente no!
Così, chiunque può potenzialmente essere mafioso, persino un cavallo stando a quanto scrive nella sua biografia Bill Bonanno, figlio di uno dei principali boss di Cosa Nostra americana:
Purtroppo, non si deve solo a membri di organizzazioni mafiose l’opera di negazione e dissimulazione del fenomeno. Anzi, innumerevoli sono stati i casi di politici, investigatori e sociologi che hanno contestato l’idea di un’entità criminale particolare che necessitasse di uno studio approfondito e di misure legislative speciali. Taluni in maniera convinta, talaltri col fine di minimizzare l’attenzione attorno al fenomeno mafioso, in molti hanno dipinto i mafiosi come criminali comuni, non affiliati ad alcuna organizzazione con capi e regole, facendoli ricadere nel grande pentolone della devianza o, peggio ancora, riducendoli a mero dato culturale.
Le parole del famoso scrittore e folklorista siciliano Giuseppe Pitrè, ad esempio, hanno celato per diversi anni la mafia sotto il velo del sicilianismo, negandone la fondamentale componente associativa:
Con queste parole, quasi centotrenta anni fa, Pitrè raccontava di una realtà mafiosa paradossalmente priva dell’organizzazione Mafia, già da tempo invece ben presente e attiva sul territorio siciliano.
Se la miopia dello scrittore palermitano può forse essere giustificata dalla fase storica in cui costui ha vissuto, vi sono state eminenti figure appartenenti ad epoche ben più recenti le quali non possono trovare discolpa. Magistrati, cardinali, politici, poliziotti, in molti hanno evitato di chiamare il fenomeno mafioso con il suo vero nome, così favorendolo. Sarebbero diversi i nomi che si potrebbero elencare, tuttavia tra questi spicca per distacco quello di una figura focale all’interno dell’ultimo ventennio politico italiano, ovvero Marcello dell’Utri.
Palermitano, fondatore nel 1993 del partito Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi e suo fedele collaboratore, per oltre quindici anni Dell’Utri ha occupato le aule della politica italiana, prima come deputato e poi da senatore della Repubblica Italiana, prodigandosi nell’affermare l’inesistenza della Mafia e utilizzando come altri prima di lui il leitmotiv che vedeva in essa solamente un reflusso culturale:
Tutto relativamente nella norma, sembrerebbe. Se non fosse che quest’uomo già nel 1974, secondo la Procura di Palermo, incontrava in compagnia di Silvio Berlusconi i capimafia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate e Mimmo Teresi. Precisamente per i suoi fitti legami con gli ambienti mafiosi è stato successivamente indagato per mafia nel 1996 e poi condannato nel 2013 a 7 anni di reclusione per il medesimo reato, a cui sono andati ad aggiungersi altri 12 anni di pena, dovuti al ruolo centrale ricoperto in occasione della trattativa Stato-Mafia.
Le vicende appena sommariamente accennate di
questo personaggio centrale tanto della storia italiana quanto di quella
mafiosa, devono far riflettere sulla vacuità delle affermazioni di coloro che
negli ultimi decenni hanno sostenuto la tesi per cui le mafie non sarebbero
esistite o, nel peggiore dei casi, che sarebbero state poco più di un fenomeno
culturale ristretto. Ecco, è bene rimboccarsi le maniche e armarsi di buon
senso dinnanzi a queste argomentazioni scellerate, e ricordare con puntualità
ogniqualvolta la soglia dell’attenzione si abbassi, che la criminalità
organizzata di tipo mafioso esiste, che vanta caratteristiche specifiche, e che
nella sua versione globalizzata e transnazionale simboleggia uno dei pericoli
più pressanti per la società odierna.