Una delle cose che più mi appassiona di Milano sono le tracce del passato poco visibili o per lo meno visibili a pochi. Milano è una città segreta e quest’aura di segretezza molte volte viene percepita dall’esterno come “freddezza”, ma non è così. Milano ha un gran cuore, solo che lo devi guadagnare. 

Qualche tempo fa ero in giro per Porta Ticinese con aria spensierata. In una sorta di catarsi creativa dove ogni cosa mi ispirava, i portoni delle case mi sembravano volti e perfino le cicche di sigarette sembravano dirmi qualcosa. Insomma, stavo cazzeggiando bellamente. Quando, a un tratto, fui catturato da una strana opera incastrata in un palazzo all’angolo fra Corso di Porta Ticinese e Via Gian Giacomo Mora. Non so per quale motivo ma decisi di indagare più approfonditamente e, girando qua e là su siti che trattano la storia di Milano, ho scoperto una faccenda incredibile. Di quelle da raccontare durante un “first date” a qualcuno conosciuto su Tinder, quando passi di lì – tanto per capirci. 

Una visuale di via Giangiacomo Mora con Google Maps

Nel 1630 Milano viene colpita dalla peste bubbonica (un’epidemia forse proveniente dalla Cina) che dimezza la popolazione cittadina e genera paure e allarmismi, molti fondati altri meno. Talmente grave da scomodare pure il Manzoni, che la cita nel romanzo storico “I Promessi Sposi”. La paura per la peste era così tanta che la popolazione iniziò a pensare che qualcuno stesse complottando contro il Ducato di Milano, generando l’idea che per la città potessero aggirasi degli “untori”, cioè persone capaci di diffondere il contagio tramite l’utilizzo di unguenti. Così, un bel mattino del 21 giugno 1630, capitò un fatto che accese la miccia di quello che nella storia di Milano viene ricordato come uno dei fatti più vergognosi. Vennero infatti trovati in molti punti di Corso di Porta Ticinese, vicino al Carrobbio, delle tracce di un unguento giallastro e oleoso. Proprio dove io ho trovato quella strana opera. 

Venne accusato lo stesso commissario della Sanità, Guglielmo Piazza, che si trovava lì per fare dei sopralluoghi. Dopo 5 giorni di torture confessò di avere sparso l’unguento datogli da un barbiere del Ticinese, Gian Giacomo Mora. I barbieri all’epoca toglievano anche i denti, quindi avevano a che fare con sostanze e strumenti di bassa chirurgia. Infatti, il Mora, da quando era scoppiata la peste, arrotondava i magri guadagni vendendo un prodotto da lui stesso inventato, un rimedio contro il contagio, che era alquanto richiesto dal popolo privo, del resto, di altri e più efficaci ritrovati scientifici. Il povero malcapitato fu subito arrestato. Estortagli la confessione con le torture, il Senato Milanese mandò lui e il Piazza sul patibolo, in quella che è oggi Piazza Vetra. Quella dove adesso vai a sbronzarti o a limonare, per intenderci. Quello era infatti il luogo deputato alle esecuzioni capitali per i cittadini comuni, nel quale sono state arse vive nei secoli anche donne giudicate come “streghe”. La condanna dei due presunti untori doveva essere un monito per tutti e il Senato, inoltre, ordinò che la casa del Mora venisse rasa al suolo dalle fondamenta. Al suo posto fu innalzata una colonna di granito con un globo in pietra sulla cima. La “Colonna Infame” avrebbe dovuto ricordare a tutti l’infamia del Mora, ritenuto colpevole di produrre il pestilenziale unguento. Sul muro della casa di fronte venne anche messa una lapide, affinché nessuno dimenticasse il monito. Ma non fu di certo la morte dei due a fermare il dilagare della peste, piuttosto il freddo invernale. 

Vignetta di Cultura in Circolo

Alla fine del 1700 questa triste storia di orrore giudiziario giunse in mano agli austriaci che si ripromisero di intervenire, cosa che causò un duro braccio di ferro fra il governo Austriaco e Milano (all’epoca sotto il loro dominio). Questo perché nessuno voleva perdere la faccia: per Milano rimuovere la targa sarebbe stato ammettere di aver sbagliato e per gli Austriaci era un principio di giustizia cittadina. Il braccio di ferro fu vinto dagli austriaci con un’abile mossa. La legge vietava il restauro dei monumenti d’infamia e bastò quindi danneggiare la base della colonna per richiederne l’abbattimento. Infatti, nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1778 il triste monumento venne abbattuto mentre la lapide si trova oggi al Castello Sforzesco di Milano, nel cortile della Rocchetta. Al suo posto venne creata da Menegon, nel 2005, la strana scultura che ha acceso la mia curiosità: un gioco di pieni e vuoti raffigura una colonna che mantiene vivo il tragico ricordo. 

Questa storia mi fa riflettere molto sul presente e su come una paura generalizzata delle masse – più una fake news generata dalla fantasia di pochi – possa rovinare la vita di singoli individui in maniera così atroce. È quello che sta avvenendo in questi giorni alla comunità cinese in Italia con la storia del Coronavirus (e perfino alla Birra Corona che per uno strano motivo è calata nelle vendite) dove, ad esempio, molti ristoranti cinesi hanno visto un calo delle prenotazioni del 43% nelle settimane del 20 e del 27 gennaio, come riportato da The Fork, soprattutto nelle aree in cui la comunità è più presente, Lombardia, Toscana e Veneto. Per non parlare dell’improvvisa ostilità generatasi in alcune scuole con alta presenza di bambini cinesi. Senza entrare in campi che non mi competono come la Virologia – che lascio all’OMS e all’Istituto Superiore della Sanità – pensare che in Italia i cinesi siano “untori” del Corona Virus, pur non essendosi recati in Cina nell’ultimo periodo è un pensiero molto pericoloso. Però è anche un pensiero che genera introiti, perché esiste un business legato alla paura. Da sempre. 

La scultura moderna raffigurante la colonna infame

Il capitalismo marcio in cui viviamo si nutre di paure, come “Ho paura di non essere abbastanza bello per lei/lui, quindi mi compro un abito nuovo, vado dal parrucchiere…” ecc. Il sistema capitalistico si basa sul “bisogno” e quando i bisogni primari sono ampiamente soddisfatti (come quello del cibo) se ne cercano altri. Negli anni ‘60 in pieno boom economico il “bisogno” era legato all’auto e tutti sognavano di sfrecciare per le strade come nel “Sorpasso”. Paure e bisogni di fatto sono la stessa moneta, una paura genera molti bisogni e quest’ultima fa girare l’economia. Nel caso del Corona Virus, c’è di mezzo anche un altro fattore, la crisi dell’editoria. I giornali oramai sono tutti online e per poter vivere hanno bisogno di “click”. Dentro ogni articolo online ci sono almeno 4 pubblicità che alimentano la vita del giornale stesso. Di per sé questa cosa, non è il male. Il male sta nel fatto che il giornalismo italiano ha smesso di essere autorevole perché insegue le “views” e spesso cura poco le fonti. Il Corona Virus è un grosso affare, la gente ha paura di essere “unta” e molte riviste propongono articoli non verificati pur di far click. 

Questo non vuol dire che bisogna abbassare la guardia sul Corona Virus, ma neanche allarmasi come con la peste! Con questo articolo ora hai qualcosa in più da fotografare quando sei sbronzo e una storia in più da raccontare al tuo prossimo appuntamento. 

Fonti: 

Gian Giacomo Mora, il barbiere della peste manzoniana

TheFork si unisce alla campagna #iovadoalcinese

C’è una cinese in classe, i bambini non vanno a scuola

Sì, su Google c’è qualcuno che ha confuso il coronavirus con la birra Corona