Il termine “Polar” nel mondo del cinema è dibattuto, perché rappresenta di per sé la sintesi linguistica di una commistione di generi, più che un genere vero e proprio. In ogni caso, è stato utilizzato in Francia e alla Francia appartiene, nella sua essenza cinematografica più pura. È Polar il cinema di genere che si propone di essere, come il nome fa intuire, un incrocio e un compendio tra Poliziesco e Noir.
Come distinguere Noir e Polar?
Il culmine di questo genere, neanche a dirlo, si ebbe tra l’inizio dei ’60 e l’inizio dei ’70: in realtà, stabilire una linea di demarcazione tra il Noir classico e il Polar è difficile, anche se da un punto di vista storico il primo previene il secondo. D’altra parte, la Francia non era certo nuova al genere: Grisbi, Rififi, Il buco, giusto per citare tre capolavori, erano film che avevano costituito l’ossatura del Paese. Coetaneo di Grisbi, anche il notevole La grande razzia di Henri Decoin può essere a ben ragione inserito in questo corso. E il Il bandito della Casbah, del 1936, con Jean Gabin protagonista, era un Noir che si inseriva nel filone del Realismo poetico? Ne aveva in fondo tutte le caratteristiche: la nostalgia di Parigi, la malavita, la polizia.
Sorge però spontaneo domandarsi: tutti questi film che appartengono alla storia di Francia sono Noir o Polar?
Forse, e solo forse, in un certo senso il Noir è legato a una struttura di tipo più statunitense, e gioca in casa col bianco e nero, anche per una questione anagrafica. Questi capolavori, come anche Legittima difesa, I diabolici o Il corvo, tre capolavori di un Maestro del cinema francese, Henri-Georges Clouzot, sono propri del Dna della Francia classica, che precede o segue di poco la Seconda Guerra Mondiale. In un periodo successivo, verso i Sessanta, il codice che definiva questo genere mutò specialmente a causa e per merito di una persona.
Jean Pierre Melville cambia la storia
Francese di origine ebraiche, Jean-Pierre Grumbach esordisce alla regia trentenne con un capolavoro silenzioso, minimalista, un gioiello per pochi eletti: Il silenzio del mare (Le silence de la mer). È un film che anticipa molto dello stile di Melville, il quale non ha ancora forse la coscienza di essere Melville. I motivi per cui passerà alla storia sono però ancora distanti: dopo un secondo e un terzo film che si lasciano ricordare a stento, il genio trova la sua strada.
Bob Le flambeur
È la strada maestra che passa per Bob il giocatore (Bob le flambeur, 1956), un’elegia filmica sulla malavita e su uomini d’un tempo, tutti d’ un pezzo. È il ritornello che con Melville tornerà in auge spesso, ma il suo stile dell’età matura è ancora da venire: intanto, il pubblico comincia a masticare nuovamente il sapore di un Noir che in fondo, da un punto di vista estetico, non si discosta dal canone, per quanto lo faccia a livello narrativo.
La doppia regia del 1963
Due film di mezzo – uno dimenticabile – e otto anni passano tra le flambeur e la doppia regia del ’63, in cui Melville assaggia il Polar contribuendo a fare di Jean-Paul Belmondo un divo dopo che l’aveva già diretto nel ’61 in sottana, con la talare di un prete (!) in un film di esistenzialismo puro. Lo spione (Le Doulos) e Lo sciacallo (L’Aîné des Ferchaux), specialmente il primo tra i due, sono il banco di prova di un regista che ormai si sta immergendo in un mondo che riadatterà secondo la sua coscienza, una coscienza che è sua propria. Questi due film, che risentono ancora di uno stile per certi versi impersonale, contengono però nei personaggi alcune delle caratteristiche che Melville traslerà sul suo cinema successivo, quello che cambierà in toto la storia del Noir-Poliziesco, ovvero del Polar. Per la prima volta- e non saranno molte le occasioni- il regista di origine ebraica utilizza un attore del calibro di Belmondo per parti marcatamente negative, in opposizione alla legge. Ne Lo spione (Le Doulos, 1963) una certa aria torbida e di vissuta malavita si fa prorompente, e con essa anche l’atmosfera che verrà perfezionata pochi anni dopo: stiamo entrando in Melvilland, la terra e lo spazio di Jean-Pierre Melville.
“Melvilland”, ovvero il culmine stilistico del Polar
Secondo il grande e compianto critico cinematografico Claudio G. Fava (1929-2014), Melville visse in Melvilland: ovvero sia, si costruì un universo cinematografico a sé stante, frutto della sua fantasia. Un universo che funzionò attraverso un meccanismo di perfezione assoluta, frutto di una meticolosa quanto ossessiva attenzione del regista per il suo lavoro. E al 1966 risale il cambio di passo di un regista che ha trovato “il suo”: Tutte le ore feriscono…l’ultima uccide (1966), con Lino Ventura protagonista, segna uno tra i più alti punti nella carriera del regista e della storia del cinema: un meccanismo perfetto in cui tutto concorre a una narrazione che non si concede errori; la mitologica figura di un ispettore di polizia che intende il crimine meglio di quanto il crimine intenda sé stesso, un personaggio protagonista dallo spettrale vigore che nella vita “ha giocato, ha perso”, la dimensione spazio-temporale che nelle scene d’azione si asciuga fino al punto da risultare di cristallina bellezza, in un bianco-nero calibrato ad hoc.
La sinergia Melville – Delon crea una trilogia indimenticabile
In proposito di codici, quattro anni più tardi il regista francese si spenderà finalmente in un lungometraggio che aveva concepito nella sua mente per anni e anni, forse decenni: un film che per molti cinefili è giustamente ricordato non solo come la sua Summa Theologiae, ma anche come quella di un attore che con Melville trova un’intesa perfetta per questioni caratteriali e politiche: Alain Delon. Nella sua più minimale interpretazione, in quello che per molti è il ruolo della sua vita, il più bell’attore della storia del cinema europeo quasi “scompare”: il suo Jeff Costello domina Frank Costello faccia d’angelo, orrenda traduzione dell’originale Le Samouraï, titolo francese ben più indirizzato verso il cuore della questione. Difatti, il buon Melville s’era ispirato al codice dei Samurai per designare questo silente killer solitario, famelico lupo senza parola che agisce con la sola ratio in una Parigi spettrale e ultrametropolitana, dominata dai colori notturni e flebili che rendono il tutto avvolto in un alone che rimanda quasi al bianco e nero.
Caratteristiche cromatiche, queste, che saranno presenti anche in I senza nome (Le cercle rouge, 1971) di Melville sempre con Alain Delon protagonista, affiancato questa volta da divi di pari livello in un film dal cast stellare: l’italo-francese Yves Montand, Bourvil e l’italiano Gian Maria Volontè, col quale il regista ebbe screzi dovuti alle chiarissime divergenze politiche tra i due (Volontè era comunista, Melville un uomo di destra). A non mutare nel Polar che usciva dal perfezionismo di Melville rimaneva una certa estetica maniacale e il determinismo: Le Samouraï, come anche Le cercle rouge e il precedente Le deuxieme souffle, sono film accompagnati come non mai dal senso della morte; precisamente, più dal gelo mortuario che non dal caldo e romantico culto della sconfitta. Da un punto di vista commerciale, I senza nome fu il più grande successo di Melville.
Terzo con Delon e ultimo con Melville, Notte sulla città (Un flic, 1972) chiude un ciclo irripetibile per la storia di Francia; nel farlo si prende la libertà di eccedere in una sceneggiatura debole che penalizza un film in cui nemmeno la lunghezza di alcune sequenze virtuose (tra le quali, bellissima, la rapina in apertura) consentono un reale decollo. Questa volta il volto più noto di Francia passa la staccionata per vestire i panni del poliziotto, ma il milieu è sempre lo stesso. Fu l’ultimo lungometraggio del regista, che morì poco dopo precocemente per un attacco cardiaco.
Desaturare il colore: Henri Decae direttore della fotografia
Vero fautore di questa desaturazione del colore che contribuisce a far sì che i film risultino cromaticamente flebili al punto da rimandare al bianco e nero è il direttore della fotografia Henri Decae, deus ex machina che con Melville rifinisce il prodotto fino a renderlo rarefatto, platonico, di una verticalità quasi spirituale. Decae già aveva lavorato con Melville in alcune sue opere capitali citate in precedenza. D’altronde, sempre in quest’ottica cromatica, è l’astrazione la chiave di volta per interpretare un cinema così vicino a Hopper e tanto profondamente statunitense, pur essendo naturaliter e intrinsecamente francese. Melville, sostiene sempre Claudio G. Fava che così lo descrive per un ciclo di film da lui lanciato, è in fondo “un americano a Parigi.”
Di Decae è anche la fotografia de Il clan dei siciliani (Le Clan des Siciliens, 1969, Henri Verneuil), una vetta del giallo-noir-polar di assoluta risonanza commerciale, ma profondamente distante da Melville per il ritmo narrativo: un film di cassetta e di genere che contiene però in sé la storia di un paese, e che accomuna tre divi di Francia in un rapporto di morbosa intensità: Polizia (Lino Ventura), giovane malavita francese (Alain Delon), anziana e italiana malavita affermata (Jean Gabin); in quale misura è un polar, in quale un noir, in quale un semplice giallo questo prodotto di “spinta” di un grande artigiano del cinema francese? Difficile a dirsi e, volendo trovare un equipollente di diversa fortuna commerciale, un discorso analogo andrebbe fatto per La fredda alba del commissario Joss (Le pacha, Georges Lautner, 1968) in gloria a un Jean Gabin invecchiato ma ancora funzionale e stoico come non mai. Di tutto quel paese questo genere rappresentava un’epoca, un antico sentore, una certa maniera di stare al mondo.
Una dedica personale
Questo articolo è dedicato a Claudio G. Fava (1929-2014), critico cinematografico, giornalista, genoano, Officier des Arts et des Lettres in Francia, grande francofono e francofilo, appassionato gollista. Curò rubriche per la RAI di Cinema, presentando il lunedì diversi capolavori in prima serata con schede tecniche accattivanti. Portò il cinema di Jean-Pierre Melville in Italia. Un giorno di qualche anno fa, sulla sua rubrica del blog Clandestino in galleria, rispose a qualche mia domanda pregressa…