We are with Europe, but not of it. We are linked but not combined
Winston Churchill
Brexit is done. E’ andata. Ci sono voluti: un referendum, due elezioni nazionali, tre primi ministri e quattro anni di angoscia mista a senso del ridicolo in tutto il continente perché oggi il Regno Unito si avviasse definitivamente all’ultimo atto, varcando la porta dell’Unione Europea.
«Ebbene, sono stato ad aspettare / Aspettare qui da così tanto tempo / Ma pensando che niente / Niente potesse andare storto / Io non la conosco veramente / So solo il suo nome / Però lei si insinua nel tuo corpo / Non sarai più lo stesso / Quindi, a lei non piace perdere / Per lei è ancora un gioco / E ho pensato che ti incasinerà la vita / Tu la vorrai lo stesso»
La sensazione è che dopo essersi espressi il 23 giugno 2016 col 51,89% dei consensi per il Leave, ora la stragrande maggioranza dei britannici non ne voglia più sapere della Brexit. A dicembre hanno consegnato a Boris Johnson un governo di maggioranza per portare a termine un divorzio, whatever it takes. La Brexit da “ordinata” con Theresa ad “a tutti i costi” con Bojo, è diventata “invisibile” come cantavano i Genesis nel 1986.
Tomorrow and tomorrow and tomorrow
William Shakespeare – Macbeth, Atto V, Scena 5
La cronaca di questi giorni lo conferma, il tema della fuoriuscita dello Uk dalla Ue non occupa più il centro dell’attenzione politica. Nell’agenda globale dei media è stata surclassata dalla morte di Kobe Bryant, dall’impeachment di Trump, dalla polveriera mediorientale e dall’epidemia cinese. Mentre nell’agenda del World Economic Forum di Davos non c’è praticamente entrata: gli ultra ricchi della terra al massimo ne hanno fatto chiacchiera da bar.
Più che ammainare le bandiere dell’Union Jack dalle tre sedi istituzionali europee, domani nulla cambierà nel concreto. Secondo l’accordo sottoscritto, dal 1 febbraio inizierà un periodo di transizione che durerà quasi un anno, fino al 31 dicembre 2020. Regno Unito e Unione Europea non vivono più nella stessa casa ma, nonostante alcuni effetti della Brexit si siano già manifestati nel corso dei tre anni e mezzo di trattativa, si devono ancora accordare su tutte le pratiche del divorzio.
Con ogni probabilità domani assisteremo ancora una volta alle due manifestazioni parallele che da anni si svolgono sotto il grigio cielo di Londra: quella di giubilo dei leaver coi loro ridicoli cappelli a cilindro e con le effigi nazionali; e quella di lutto dei remainer, avvolti per l’ultima volta nella nostalgica bandiera a 28 stelle dell’Unione. Niente di nuovo all’ombra del Big Ben, che alla mezzanotte di stasera non rintoccherà, essendo fermo per lavori di restauro.
Il rintocco del B-day, l’ultimo istante prima della Brexit, lascia tristezza per il “salto nel vuoto della piccola isola” come ha titolato il Guardian stamani; a cui fa da contraltare l’euforia del The Sun che apre affermando “Our time has come”.
Un titolo ambiguo, quasi funebre come il canto che ha accompagnato l’ultima apparizione dei 73 deputati britannici al loro ultimo giorno a Bruxelles, Auld Lang Syne, in Italia noto – soprattutto nel mondo scout – nella duplice variante da Il canto dell’addio o de Il valzer delle candele. In Scozia, dove è cosa da poeti, essendo inserita in una raccolta dal vate nazionale Robert Burns, viene cantata nelle occasioni di passaggio, festose – come il capodanno – e meno …
Auld Lang Syne, è un’espressione dello scozzese antico, il cui corrispettivo non proprio letterale nell’inglese moderno è “the good old days”, nel senso de “i bei tempi andati”. Fuor di metafora e di canzone, la nostalgia del passato è una delle molle che ha fatto scoccare la Brexit, l’ultima goccia del multi-secolare vaso isolazionista dell’arcipelago britannico. Il senso di alterità delle isole d’Oltremanica rispetto alla terraferma europea è un misto di concreti risvolti quotidiani e di categorie di pensiero che risalgono alla notte dei tempi.
Ben prima del regno di Sua Maestà, due lunghe fortificazioni separavano il limes romano dalla Caledonia. I valli di Adriano e Antonino misurano rispettivamente 80 e 39 miglia, un retaggio dell’antica influenza romana? Non proprio, o meglio non del tutto: quello romano misura 1 478,5 metri, quello del sistema imperiale britannico 1 853,2. Piedi, once, libbre…dal 1824 col British Weights and Measures Act, un sistema alternativo a quello metrico decimale viene utilizzato nel mondo anglosassone. Non sono solamente gli americani ad affermare di “andare in vacanza in Europa“. Anche i cittadini britannici si collocano mentalmente altrove rispetto alla gran parte del Vecchio Continente.
La quotidianità spicciola, ma anche la Storia con la “s” maiuscola, delineano il particolarismo delle radici e della cultura britannica. Uno “splendido isolamento” da non intendersi come monolitico – come conferma il fatto che comunque il 48,11% nel 2016 aveva optato per il remain – ma come un fiume carsico, che soggiace in profondità per poi riemergere nei momenti chiave della nazione. A partire dal più solenne atto di separatismo del mondo anglosassone dalla “comunità – confessionale – europea”: lo scisma del 1534. L’uscita del regno dalla Chiesa di Roma per dare vita alla Chiesa anglicana, oltre che per dispute teologico-politiche, ha alla base le questioni private di un sovrano, Enrico VIII che per tutta la vita non aderirà al protestantesimo, perseguitando anzi luterani e calvinisti.
«We are with Europe, but not of it» è la frase che ogni buon leaver pronuncia come un mantra. “Siamo collegati ma non compromessi” prosegue uno scritto giovanile, poi riproposto in una pubblicazione per il Saturday Evening Post del 15 febbraio 1930 da Winston Churchill. L’uomo che dieci anni si guadagnò la nomea di “padre dell’Europa”, impedendo ai nazisti di varcare la bianche scogliere di Dover, dove è raffigurato il soldato britannico nel manifesto della seconda guerra “Very well alone!”.
“Meglio restare soli” devono aver pensato almeno una volta nella loro vita i premier britannici dal dopoguerra in poi, interfacciandosi con il nascente progetto comunitario europea. Una storia di incomprensioni è bene dirlo. In principio fu il rifiuto di aderire ai negoziati per il Trattato di Roma del 1957, definito irrilevante. Quando poi Harold Macmillan, per paura di essere lasciato fuori da una storia di successo economico, cambiò idea la sua offerta di adesione venne respinta dal presidente francese Charles de Gaulle. Quando Edward Heath riuscì finalmente a negoziare l’adesione dal 1973, fu visto da molti come una sconfitta per l’eccezionalismo britannico, non una vittoria per la solidarietà europea.
Un impero secolare – difeso varcando la Manica contro Napoleone e contro Hitler – per quanto in dismissione, lascia un retaggio e una percezione difficilmente confinabile nell’identità continentale. Gli inglesi si sentono cittadini di una nazione globale, non continentale. Il loro sguardo è maggiormente attratto dalle ex colonie del Commonwealth e degli Usa. Salvo poi riporre scarsa attenzione per le questioni di politica estera e della sicurezza europea, per accanirsi invece sui dibattiti su immigrazione ed economia. Lo ha fatto la signora Thatcher, lo hanno fatto i leader a cavallo del referendum del 2016. L’ultima pagina del grande libro delle incomprensioni tra noi e loro. A mezzanotte scoccherà il primo rintocco del B-day.
La loro ora è giunta