Sono sempre stato attratto da qualsiasi calciatore balcanico poiché, fondamentalmente, sono sempre stato attratto da qualsiasi cosa balcanica. Un’inclinazione che non sempre si riduce a un attestato di stima, anzi: spesso è un richiamo complesso, sfumato, oscuro. Da Igor Tudor a Mario Mandžukić, da Mirko Vučinić a Edin Džeko fin dai tempi del Wolfsburg, quando scoprii essere cresciuto nella Sarajevo assediata. Per non parlare di Senad Lulić, nato a Mostar e, nonostante ciò – oppure a causa di ciò, il confine è chiaramente molto labile – capace di dire, in diretta televisiva, che un suo avversario tedesco, di origine africana, fino a qualche anno prima faceva il vù cumprà.

Sinisa Mihalovic, CT della nazionale serba tra il 2012 e il 2013, saluta con le tre dita a fine partita – LaPresse

Rifaresti tutto ciò che hai fatto in quegli anni,
compreso il necrologio per Arkan?
«Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego»

Sinisa Mihalovic, intervistato da Guido De Carolis per il Corriere della Sera, il 23 marzo 2009

Siniša Mihajlović ovviamente non fa eccezione. Ho sempre subito il suo fascino, nonostante sia stato, calcisticamente parlando, un nemico vero per me juventino (Lazio, Milan, Inter, Fiorentina, Toro e chi più ne ha più ne metta). Che abbia dedicato un necrologio a Željko Ražnatović è risaputo; non è certo invece che sia stato lui a commissionare lo striscione della Curva Nord laziale: «Onore alla tigre Arkan»: Siniša ha sempre negato di essere il “mandante” di quello striscione, esposto allo stadio Olimpico il 30 gennaio 2000, 15 giorni dopo che tre colpi di pistole alle spalle, sparati da un poliziotto 23enne all’Intercontinental Hotel di Belgrado, misero fine alla vita del leader paramilitare serbo. L’apologia di Siniša è sempre stata molto chiara: «Arkan era un amico». E questo era già più che sufficiente.

Nel mezzo della scena riportata qui sotto, tratta da quello che è il mio film preferito in assoluto, per il quale piango dall’inizio alla fine – Big wednesday, in italiano Un mercoledì da leoni, capolavoro di John Milius: difficile che qualcuno nato dopo gli anni Settanta lo abbia visto – si trova l’emblematica frase «Gli amici sono la cosa che conta di più nella vita». Semplice, lineare. Siniša Mihajlović ha i suoi codici, le sue leggi, i suoi eroi. Una scazzottata giovanile – episodio chiave del film – non è Srebrenica. Non lo è per noi, non lo può essere in senso assoluto. Ma, come ha detto Bear a Matt qualche minuto prima di passare la bottiglia a Jack, «gli amici si vedono proprio quando si ha torto». Ancora più semplice, ancora più lineare.

Un mercoledì da leoni – John Milius, 1978

C’è un’altra storia emblematica che l’attuale tecnico del Bologna ha raccontato per la prima volta nella già citata intervista del 2009, a dieci anni esatti dall’inizio dei bombardamenti Nato sulla sua Serbia; la Serbia di Siniša Mihajlović ma – o forse, a maggior ragione “e” – anche di Slobodan Milošević e, appunto, di Željko Ražnatović. Madre croata e padre serbo, Siniša è nato cinquant’anni fa e per i primi venti è cresciuto a Vukovar, città di confine tra Serbia e Croazia di cui dal 1998 è tornata definitivamente a farne parte. La “Stalingrado croata” nel 1991 è stata protagonista della più grande battaglia combattuta sul suolo europeo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non in termini di durata – rispetto ai quasi quattro anni di assedio di Sarejevo, i tre mesi di Vukovar sono un’inezia – ma di violenza: dal 25 agosto al 18 novembre sono circa 7 mila, tra serbi e croati, i caduti in una cittadina che nel 1991 contava 46 mila abitanti e nel 2001 ne conterà un terzo in meno.

All’inizio del conflitto, prima che la guerra si trasferisse in Bosnia, come per esempio ha ricordato Emmanuel Carrère in Limonov – spero sia abbastanza pop da essere noto ai più – dividere la questione in buoni e cattivi era praticamente impossibile. La polveriera era già esplosa e la madre di Mihajlović disse a suo fratello Ivo di scappare da Vukovar e rifugiarsi a Belgrado dal nipote, in forza da un anno alla Stella Rossa. «Io a casa di quel porco serbo non ci vado», fu la risposta dello zio. Quando le truppe serbe presero Vukovar, Arkan catturò Ivo: «C’è uno che sostiene essere tuo zio» e Siniša, dall’altro capo della cornetta, confermò. Lo zio Ivo venne spedito a Belgrado dove Mihajlović, senza dire nulla alla madre, lo nascose per un mese a casa sua, salvandogli la vita.

Lo striscione-necrologio per Arkan, esposto il 30 gennaio 2000 all’Olimpico

È una storia a cui ho ripensato in questi giorni, dopo aver letto le dichiarazioni di Mihajlović di stima nei confronti di Matteo Salvini e di sostegno alla candidata del centrodestra in Emilia-Romagna Lucia Borgonzoni. Non è una questione ideologica, né di categorie politiche. Figurarsi poi se si possano comprendere i Balcani – ma si potrebbe allargare il discorso ad altre aree del planisfero – utilizzando gli strumenti dell’Occidente europeo, che risultano arcaici anche per valutare il nostro presente, figurarsi quello degli altri. È una vicenda umana. E mi chiedo, caro Siniša, come possa uno come te appoggiare un vigliacco che ama farsi riprendere mentre citofona a un poveraccio tunisino chiedendogli se spaccia. La tua storia insegna altro. I tuoi valori, giusti o sbagliati che siano, dicono altro. Sai che cosa è la guerra, perché te l’ha raccontata qualcuno di cui ti fidi, e proprio per questo dovresti comprendere che no, Salvini non è un combattente, come invece hai dichiarato. Tu che sei cresciuto nella Vukovar a maggioranza croata, tu che sei stato straniero nel nostro paese e ti sei preso dello “zingaro di merda” in ogni stadio.

«Non posso trattenermi dal dubitare che esiste una qualunque genuina realizzazione del nostro più profondo carattere, tranne la guerra e la malattia, quelle due infinità dell’incubo». Così ha scritto Louis-Ferdinand Céline e tu, Siniša, che le hai conosciute entrambe, sai bene di cosa si parla. Sei ancora in tempo per redimerti, in bocca al lupo.