Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore
Vladimir Putin
Di fronte a Nostra Signora di Kazan, la cattedrale di San Pietroburgo costruita sul modello di San Pietro – con tanto di colonnato del Bernini – si erge una statua di quasi 4 metri, dedicata al feldmaresciallo Kutuzov. Lo stesso soggetto che campeggia in un enorme quadro al termine della serie infinita di ritratti della Galleria militare del Palazzo d’Inverno. «Possibile che speriate di battere Napoleone? No, non spero di batterlo, ma ingannarlo sì!», rispondeva ai parenti che lo interpellavano: nemmeno lui credeva di poter sconfiggere Bonaparte nella Guerra patriottica (Otečestvennaja vojna) del 1812. Era il primo a sottovalutare i propri mezzi e quelli del paese che si accingeva a difendere.
Centotrent’anni dopo gli sarà stata dedicata la seconda decorazione militare più importante dell’Unione Sovietica prima e della Russia poi. L’Ordine di Kutuzov venne creato dallo stesso uomo che il giorno prima – il 28 luglio 1942 – aveva emanato un ordine tanto semplice quanto essenziale, il numero 227: «Ni shàgu nazàd!». Non un passo indietro. Perché prima di avere la meglio sui nazisti nella Grande guerra patriottica (Velikaja Otečestvennaja vojna) anche Stalin aveva dovuto combattere con la diffidenza di chi lo circondava: «è troppo grossolano – scriverà di lui Lenin nel testamento – e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nel rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo».
D’altronde la storia russa si può leggere come una carrellata di personaggi sottovalutati che una volta giunti ai posti di comando sono destinati a sorprendere. È quello che è accaduto anche all’oligarchia post-sovietica con l’uomo che il 31 dicembre 1999 divenne Presidente della giovanissima Federazione, in seguito delle dimissioni di Eltsin. «Anch’io ho sottovalutato Putin – commenta Antonella Scott, vice responsabile della sezione Esteri e inviata in Russia del Sole 24 Ore che nel 1999 ha scritto Quando finirà l’inverno. La Russia dopo Eltsin – Chernomyrdin, Kirjenko, Primakov, Stepashin…era il quinto premier chiamato al governo da Boris Eltsin in pochi mesi, mi ricordo di aver pensato che non sarebbe stato l’ultimo! Un pochino scherzo, ma di certo allora pochi avrebbero immaginato che cosa sarebbe diventato quell’uomo praticamente sconosciuto. Tra il ’98 e il ’99 Eltsin, sempre più debole fisicamente e politicamente, sembrava incapace di trovare non solo la persona ma neppure la linea giusta da imprimere al governo».
E così si dimise, a sorpresa: vennero registrate due versioni del saluto di fine anno 1999. Nella prima, del 28 dicembre, non si faceva minimamente accenno alle dimissioni «e all’improvviso, proprio alla fine delle riprese disse: “Non mi piace come è venuta. Dobbiamo rifarla. Rigiriamola l’ultimo dell’anno”. Gli addetti ai lavori della tv erano preoccupatissimi, ma Boris Nikolaevich fu irremovibile», ha raccontato il consigliere di Eltsin e autore del discorso, Valentin Jumashev.
«Oggi, in questo giorno insolitamente importante per me, voglio dire parole un po ‘più personali di quelle che di solito dico. Voglio scusarmi con voi. Per il fatto che molti dei nostri sogni non si sono avverati. E ciò che ci sembrava semplice si è rivelato dolorosamente difficile».
Il passaggio dall’Unione Sovietica alla Russia nell’ambito della Comunità degli Stati Indipendenti è stato traumatico. Un periodo turbolento, illuminato da “riforme radicali” e oscurato da profondi sconvolgimenti, da cui è emerso un paese differente. Differentemente dal 1917, non si può parlare di “rivoluzione” ma di “transizione” da un sistema a un altro. Un’evoluzione traumatica che la nazione aveva già vissuto nel corso della sua storia.
L’epoca dei torbidi – Smutnoe Vremja – è stato un periodo confuso e turbolento della storia russa di inizio XVII secolo. Un intervallo di 15 anni tra la fine, nel 1598, dei Rurik – la dinastia che in sette secoli dalla Rus’ di Kiev aveva dato vita allo Zarato Russo – e l’ascesa, nel 1613, dei Romanov con l’elezione a zar di Michele. Oltre a quella dinastica, per quasi una generazione il paese fu alle prese con altre due crisi: quella militare – con Polonia e Svezia che cercarono di approfittare delle debolezze del nemico storico – e quella sociale, con il collasso dello stato moscovita. Quando, nel 1598, lo zar Fedor morì senza lasciare eredi al trono salì un suo consigliere, Boris Gudonov. Quest’ultimo fece sforzi di ogni genere per impadronirsi del potere fino a spingersi, secondo una credenza popolare rafforzata da un dramma teatrale di Puskin, a ordinare l’assassinio dello zarevic Dimitri. Quando finalmente Boris salì sul trono, iniziò una una fase di inquietudine e sbandamento che, dopo la sua morte nel 1605, sfociò in aperta anarchia. In appena un anno si intervallarono: quattro zar, e un’infinità di “falsi Dimitri” come pretendenti al trono; carestie e invasioni di polacchi e svedesi; ribellioni feudali a nord e a sud delle classi inferiori e dei cosacchi. Al culmine del superamento della “pericolosa malattia”, il 21 febbraio 1613 lo zemskij sobor, l’assemblea della terra – il primo parlamento russo composto da clero, boiari, piccola nobiltà, cittadini e rappresentanze dei contadini – elesse zar Michele Romanov. Dal quindicennio di invasioni, reazioni aristocratiche, anarchia e ribellioni popolari, l’autocrazia uscì sostanzialmente indenne e lo stato col suo intento centralizzatore riuscì ad avere il sopravvento su famiglie e clan, rafforzando il legame con la piccola nobiltà di servizio e la Chiesa.
Da Boris Gudonov a Boris Eltsin, due traghettatori hanno guidato la nave russa nelle grandi tempeste della sua storia. Se il primo, rampollo praticamente analfabeta di una famiglia della piccola nobiltà mongola, convertito all’ortodossia e russificato ma protagonista di una straordinaria ascesa a corte, è rimasto nell’immaginario collettivo come un personaggio leggendario (seppure nel suo animo cospiratore e picaresco), il ricordo del secondo è abbastanza offuscato.
«Eppure Eltsin non è stato una figura di passaggio – prosegue Antonella Scott – Gorbačëv ha avuto il merito di permettere una conclusione praticamente pacifica della guerra fredda; ma il ruolo principale nel mettere fine all’Urss è di Eltsin. Poi ha avviato la Russia sulla strada della democrazia. Nel farlo ha perso spesso la strada, e il “fascino” dei suoi primi anni, in cui era Corvo bianco, il ribelle che sfidava il sistema. Si è scontrato con un compito troppo grande per lui».
Con la sua relazione al congresso del XXVII congresso del Pcus, il 25 febbraio 1986 il segretario generale dell’Urss Michail Gorbačëv dette il via una stagione di “riforma radicale”, a cui in breve venne dato il nome di perestrojka (ristrutturazione). Gorbačëv era in carica già da un anno ed aveva già avviato la glasnost‘ (letteralmente “pubblicità”, ma che noi traduciamo con “trasparenza”), una campagna di moralizzazione del partito che nei suoi piani avrebbe consentito all’opinione pubblica di vigilare sull’apparato politico-amministrativo, costringendolo a dover rendere conto della propria attività per la prima volta in 70 anni. La ristrutturazione innescò una convulsa fase di cambiamento della struttura politica e sociale del Paese, mentre la liberalizzazione economica innescò unaa reazione a catena con conseguenze globali: apertura al mercato, democratizzazione del paese, distensione delle relazioni internazionali.
La leadership di Gorbačëv mise di fatto l’Urss di fronte a due campi contrapposti: conservatori contro liberali, autoritari contro democratici, unitari contro confederali, fautori dell’economia di mercato contro sostenitori del dirigismo statale. Il segretario proseguì la sua politica di equilibrismo tra le “spinte liberali” e il “conservatorismo degli apparaticki“, fino al giugno del 1988. Con la XIX Conferenza del partito si concluse il braccio di ferro tra “conservatori” e “liberali”: una nuova costituzione dette vita al Congresso dei Deputati del Popolo dell’Unione Sovietica con cui, senza intaccare il sistema del partito unico, si aprì alle candidatura plurime – sempre su lista unica – per i delegati del Soviet Supremo. Le elezioni del marzo 1989 sono state una svolta democratica. Il processo di distinzione tra stato e partito ben presto andò al di là delle intenzioni di Gorbačëv, che nell’aprile 1988 ritirò l’Armata Rossa dall’Afghanistan e soprattutto nei rapporti con le altre Repubbliche satelliti cominciò a sostituire la dottrina Brežnev di sovranità limitata con una nuova politica estera di non ingerenza nei loro affari interni, ribattezzata dottrina Sinatra. Nel 1989 finiva la Guerra fredda. Non appena fu chiaro che l’Urss non sarebbe ricorsa alla forza si innestò la catena degli eventi che in meno di due anni portò alla dissoluzione dell’Unione sovietica stessa.
Non c’era ancora la democrazia ma una considerevole libertà d’espressione, era finito “l’impero sovietico” e a breve sarebbe toccato al partito. Con le elezioni del 5 marzo 1990 Boris Eltsin venne eletto presidente del Soviet Supremo della repubblica russa. Eltsin, nativo di un piccolo villaggio degli Urali, Butka, dopo aver fatto tutta la trafila nel partito, nel 1985 approda alla sezione di Mosca. Una volta ai vertici della politica russa, diventa interprete dell’ala più radicale ed egualitaria della perestrojka, non risparmiando critiche al segretario ma soprattutto al partito. Nel 1987 arriva ad invocare la chiusura dei negozi speciali per gli alti membri del partito. Ne nasce uno scontro coi conservatori che nel 1987 gli fanno un “processo” con cui verrà espulso dal Comitato Centrale. Dopo una “traversata nel deserto” di un paio d’anni, torna in pompa magna nel 1990 con la vittoria alle elezioni. Gorbačëv combatteva l’ala dura, Eltsin l’intero partito. Non appena eletto proclamò la sovranità della repubblica russa: non intendeva staccarsi dall’Unione ma svuotarla di ogni contenuto e inglobarne i poteri. Una situazione potenzialmente esplosiva che infatti deflagrò.
Nell’agosto del 1991 alcuni esponenti di punta della nomenklatura – vertici del partito, del governo e dell’esercito – dettero vita a una “prova di forza” che nel loro intento sarebbe dovuta sfociare in un golpe. Esautorarono e sequestrarono Gorbačëv nella sua dacia in Crimea, attendendo un avvallo del partito. Ma tutti i calcoli si rivelarono errati: un’inattesa protesta popolare a Mosca il 19 e il 20 agosto si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate. A guidare la folla fu il presidente della Repubblica russa Boris Eltsin che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare e imposto la liberazione di Gorbačëv, relegò in secondo piano lo stesso presidente sovietico.
Col fallimento del golpe venne spezzato via quanto restava del potere comunista, il Pcus un tempo onnipotente vide sospese le sue attività, accelerando la crisi dell’autorità centrale. Per un tacito accordo, la più grande compagine multietnica comparsa sulla Terra si dissolse rapidamente e in maniera incruenta. Gorbačëv si dimise da Segretario del Pcus, rimanendo a capo dell’Urss, una forza politica in dissolvenza. Il 21 dicembre 1991 ad Alma Ata, capitale del Kazakistan, undici delle quindici repubbliche sovietiche diedero vita alla Comunità degli Stati indipendenti, sancendo la morte dell’Unione Sovietica. Il 25 dicembre Gorbačëv si dimise.
Eltsin era riuscito a guidare la transizione dall’Urss alla Russia. Quando si stabilì al Cremlino negli ultimi giorni del 1991, il simbolo che svettava sulle mura dell’acropoli era ancora la falce e il martello della rivoluzione bolscevica, in breve tempo ammainata per far spazio a quella russa. Ma il difficile doveva ancora venire.
«Negli anni 90, il “buio” fu soprattutto economico – secondo Antonella Scott – Fu un periodo di sfide e di errori colossali, di grandi aspettative e speranze deluse: nella gestione delle diseguaglianze sociali, nell’appoggio entusiasta di Europa e Stati Uniti a Eltsin, basato però sul presupposto che l’integrazione nella comunità occidentale sarebbe avvenuta alle condizioni poste dall’Occidente e non nel rispetto di una peculiarità propria della Russia. Questo è stato il decennio in cui il passaggio dall’economia di comando a quella di mercato ha scardinato le basi di un sistema, senza ricette pronte per sostituirlo rapidamente e in modo indolore. Con un’inflazione incontrollabile che di fatto cancellava il potere d’acquisto del rublo, i salari sostituiti dai baratti, gli enormi squilibri sociali al posto dell’uniformità – non direi uguaglianza – sovietica. Miseria, nuovi ricchi e l’aumento della criminalità economica nata dal venir meno della proprietà statale e dai conseguenti saccheggi. Il cosiddetto “capitalismo selvaggio” che andò poi a scontrarsi, nella grande crisi del 1997-98, con gli aiuti della comunità internazionale finiti nelle mani sbagliate».
La crisi economica, sociale e politica portò la neonata Russia sull’orlo della guerra civile. Emersero presto tendenze ostili al riformismo radicale di Eltsin: ora sotto forma di nostalgia del regime comunista, ora nel tradizionalismo monarchico anti-occidentale, ora nella curiosa miscela dei due orientamenti. Questo fronte composito si aggregò nel Parlamento russo, il Congresso del popolo, che entrò in conflitto col presidente. Il conflitto esplose nell’ottobre 1993 quando Eltsin, non riuscendo a superare l’ostruzionismo del Congresso, lo sciolse indicendo nuove elezioni; a sua volta, il Parlamento reagì destituendo il presidente. I sostenitori del Congresso assalirono la Casa Bianca, la sede del parlamento a Mosca, occupandola. Eltsin dichiarò lo stato di emergenza e inviò reparti speciali delle forze armate. La mattina del 4 ottobre 1993 i carri armati dell’esercito russo spararono contro la Casa Bianca e a mezzogiorno le forze speciali assaltarono l’edificio mettendo fine alla crisi istituzionale. Sul campo rimasero 187 morti, lo scontro in strada più sanguinoso mai avvenuto in Russia dai tempi della rivoluzione del 1917.
Per Antonella Scott, «la popolarità del presidente era ormai in fase calante ma a farla precipitare sarà soprattutto l’ombra della guerra in Cecenia». Ristabilito l’ordine con la forza, il presidente cercò nel 1993 di rafforzare il suo potere con una nuova Costituzione, ma alle elezioni dicembre non riuscì ad affermarsi. Per non lasciare spazio ai nazionalisti – oltre che per le pressioni dei militari – Eltsin decise, contro il parere dei gruppi democratici che lo supportavano, un intervento militare nel 1994 in Cecenia, una repubblica autonoma del Caucaso che si era dichiara indipendente. Malpreparata e duramente contrastata dalla resistenza degli indipendentisti musulmani ceceni, l’operazione si trasformò in un conflitto logorante, a suon di guerriglia e rappresaglie. Fino a sfociare nel disastro con l’imboscata di Grozny, la capitale del paese, dove i carri armati russi divennero bersaglio degli agguati ceceni. A fatica Eltsin venne riconfermato presidente alle elezioni del 1996. Raggiunse un difficile – e mal digerito, dopo più di 3mila perdite russe – accordo di pace coi ceceni a cui riconosceva ampie autonomie, in vista di una possibile futura indipendenza.
Inizia così la stagione del tramonto di Eltsin, «sempre più debole fisicamente e politicamente, ormai incapace di trovare non solo la persona ma neppure la linea giusta da imprimere al governo». I problemi più gravi vennero come al solito dall’economia, con un drammatico calo produttivo che sfociò in aperta crisi nel 1998. L’immagine di Eltsin venne ulteriormente deteriorata del “debito” che aveva contratto con gli “oligarchi” nel 1996 per vincere le elezioni: la sua campagna elettorale venne quasi totalmente pagata da alcuni personaggi influenti, proprietari di banche, aziende e mezzi d’informazione. Si trovò impotente – quando non colluso – di fronte all’economia corsara: l’intreccio tra politica, magnati e mafie che svendettero le materie prime del paese e specularono sulla moneta russa mentre l’economia del paese naufragava.
Il presidente politicamente “zoppo” e cagionevole di salute, si mise alla ricerca di un successore, erede del suo lascito politico e in grado di salvarlo dalla possibile apertura di una procedura di impeachment e da varie minacce d’incriminazione: tra il ’98 e i ’99 si avvicendano quattro governi. Eltsin avrebbe voluto come erede Boris Nemtsov, un giovane riformatore che nel 2015 sarebbe diventato uno dei leader dell’opposizione democratica, per poi essere ucciso. Ma nell’agosto del 1999 lo scoppio di una nuova guerra in Cecenia, coi russi che la invadono accusandola di ospitare formazioni islamiche che hanno causato attentati nel paese, lo fa propendere per un nuovo cambio di governo. Come primo ministro viene così designato uno sconosciuto dirigente dei servizi segreti, indicato come possibile successore alla presidenza.
«Putin è stato davvero una sorpresa. A parte l’esperienza nell’amministrazione di Pietroburgo, e poi in quella presidenziale, Putin era un uomo dei servizi, non un politico. Quella di “zar” è una definizione che piace molto alla stampa occidentale, ma è rara in Russia. Quando parla ai suoi, Putin in realtà ama definirsi “il vostro umile servitore”: certamente è ironico ma c’è anche un fondo di verità. Lui è convinto di dover compiere una missione, di essere al servizio della Russia, e certamente interpreta il desiderio di stabilità della gente, il bisogno di sentirsi di nuovo un Paese forte. Ma stabilità significa soprattutto tranquillità economica, la libertà di godere il benessere, il comfort, i viaggi, i centri commerciali e i resort, la vita “occidentale” resa possibile proprio con gli anni di Putin».
La convinzione più profonda che emerge dagli anni della transizione è che i mutamenti sociali e culturali non obbediscono alle leggi delle trasformazioni politiche. Le “profonde riforme” della “traversata del deserto” iniziata con Gorbacev nel 1985 hanno portato cambiamenti straordinari alla società russa, che negli ultimi 20 anni si è affidata all’uomo che più di tutti si è fatto garante della stabilità a ogni costo.
«Si dice che i russi abbiano bisogno di un leader forte, non ne sono sicura: o meglio, non è possibile verificare chi sceglierebbero, in una democrazia consolidata, in un sistema in cui i progressi acquisiti non fossero messi in discussione da un eventuale cambio di regime – conclude Antonella Scott – Putin è presentato e accettato dalla maggioranza dei russi (anche se in parte pilotata e comunque in calo) come la sola alternativa possibile al caos. È davvero popolare? Non ha avuto il coraggio di confrontarsi con veri oppositori, questa secondo me è la sua grande occasione perduta di questi vent’anni».