Natale 1995. Tre generazioni della famiglia di Binyavanga Wainaina si riuniscono a Kisoro, città dell’Uganda vicina al confine con il Congo e il Rwanda. Non si vedevano tutti insieme da più di trent’anni a causa di guerre, frontiere chiuse e problemi con i visti. Alcuni non si conoscono. Parlano lingue diverse, hanno diverse nazionalità: la famiglia Wainaina viene dal Kenya, la zia Rosaria dal Rwanda; ci sono i cugini di Kampala, in Uganda, e la zia che vive in America. La memoria della guerra in Rwanda è ancora recente, la zia Rosaria e la famiglia sono riusciti a sopravvivere nascosti per mesi in una cantina e «ora se ne vanno in giro con un’espressione che si vede più di frequente sui visi dei bambini: gioia, pura gioia di vivere». Forse è questo che rende così urgente questo ritrovo. «La vita ha una certa urgenza quando è accerchiata dalla morte». Si parla francese, swahili, inglese, gikuyu, kinyarwanda, kiganda e ndebele. Qui, tra canzoni, racconti e suoni di lingue sconosciute Binyavanga decide: «un giorno scriverò di questo posto».
Pubblicato in inglese nel 2011, Un giorno scriverò di questo posto è una straordinaria autobiografia che ha consacrato Wainaina come uno dei più importanti scrittori dell’Africa contemporanea. Romanzo di formazione e insieme meditazione sulle dinamiche politiche dell’Africa post-coloniale, Un giorno scriverò di questo posto mostra la multi-culturale, multi-nazionale, multi-etnica realtà della classe media keniota. La costruzione dell’identità nazionale in Kenya, la strumentalizzazione dei conflitti tra diverse etnie, la retorica sullo sviluppo dell’Africa sono raccontati attraverso la vita familiare dell’autore. Il posto del titolo non è solo un luogo geografico: non è solo il Kenya dove Wainaina è nato e cresciuto; non è l’Uganda, luogo di nascita della madre; non è il Sud Africa dove ha frequentato l’università e ha cominciato a prendere forma autonoma, fuori dai confini della famiglia. Non è solo la storia della sua famiglia, non è solo la storia del Kenya. Wainaina parla di quel luogo che possiamo chiamare casa, che racchiude contemporaneamente le radici del nostro passato e la promessa del nostro futuro, quel luogo dove posso «essere quello che sono, come promesso dai libri, dalla storia, dalla fantasia e dal futuro» .
Binyavanga Wainaina nasce nel 1971 a Nakuru, in Kenya, in una famiglia della classe media. La madre aveva un salone da parrucchiera e il padre era dirigente in un’ azienda agricola. Il Kenya aveva ottenuto l’indipendenza dalla Corona britannica nel 1963, diventando una repubblica presidenziale. Il primo presidente fu Jomo Kenyatta che mantenne la carica fino al 1978, anno della sua morte. Qui comincia il racconto, Binyavanga ha cinque anni.
Agli occhi di Wainaina bambino il mondo emerge tramite le conversazioni degli adulti, tra frammenti, omissioni e immagini potenti ma scollegate. Alla televisione i funerali del presidente Kenyatta si mescolano ai Jackson Five e a Top of the Pops. «Kenyatta è il padre della patria. Mi chiedo se sia il Kenya a prendere il nome da Kenyatta o Kenyatta dal Kenya. Il Kenya ha 15 anni. E’ perfino più vecchio di Jimmy.» Wainaina scrive nel modo in cui si ricordano alcuni episodi della nostra infanzia, perché dolcissimi o tremendi, in un mondo regolato dalla fame, dalla sete, dalla paura del buio. Fatti primordiali, totalizzanti. Eventi anche banali che nell’esperienza del bambino si deformano, i particolari si dilatano e tutto prende una valenza simbolica. Il mondo si trasfigura, come solo per i bambini e per i poeti.
Un giorno scriverò di questo posto è anche la storia di una chiamata alla scrittura. Il racconto dell’infanzia è il senso di una differenza fondamentale dal fratello Jimmy e dalla sorella Ciru. Per Wainaina bambino è subito chiaro che in lui c’è qualcosa che non va, sente di essere più vivo nelle parole che nella realtà, osservatore della sua stessa storia. «Per me, ogni cosa nuova si frantuma sempre in una miriade di possibilità. Che a un certo punto si mettono a rotearmi attorno sopraffacendomi. Mi alzo e pianto lì i compiti, mi rinchiudo in bagno a leggere un romanzo.» La lettura, e in seguito la scrittura, è un’ossessione, «una consolazione carnale». I fratelli lo prendono in giro perché ha la testa sulle nuvole, perché si comporta in modo strano. Incantato e sopraffatto dalla realtà del mondo, si ritrova sorpreso dall’adolescenza in un labirinto di scoperte e depressione. Al college si isola, si scuoia le unghie dei pollici, vuole tornare a casa.
Il linguaggio cresce con il protagonista, diventa più complesso e consapevole, si struttura in una scrittura sempre più intima e acuta. Wainaina costruisce una lingua poetica e ritmata, che si reinventa, si distorce per raccontarci non solo il senso ma la sensazione delle cose: i suoni delle lingue che non conosce, delle cose che non capisce e di tutto quello che si dice al di là delle parole. Tutta l’Africa post coloniale è necessariamente multi-lingue, ci sono le lingue coloniali, le lingue ufficiali, la lingua della tribù della madre,… ogni lingua ha un pacchetto di comportamenti e un universo di suoni che Wainaina racconta con incantata curiosità. «Io parlo inglese. Parlo swahili. Ki-may sono tutte le lingue che non so parlare e che sento ogni giorno a Nakuru: ki-kuyu, ki-kamba, ki-ganda, ki-sii, gujarati, ki-nyarwanda, (ki)ru-fumbira. Ki-May. Ce ne sono così tante. Mi vengono le vertigini. Ki-may è la fisarmonica, il violino, la cornamusa, la tromba. Tutti quei suoni spugnosi.»
Wainaina sceglie di bypassare totalmente il lutto coloniale e di mostrare l’Africa contemporanea, lontana dagli stereotipi della cultura occidentale, in una prospettiva assolutamente afrocentrica. I bianchi sono pochi, lontani, appartengono al passato. Il protagonista è del Kenya, ma abita un mondo in cui tutti possiamo riconoscerci. «Un sacco di cose vengono da Taiwan, e sempre meno dalla Gran Bretagna. Baba dice che gli inglesi costruiscono cose buone, ma non hanno mai imparato a venderle perché la gente delle colonie era costretta a comprarle comunque. Adesso ci sono venditori ambulanti che girano per le strade a vendere merce taiwanese, e sempre più negozi chiudono» è un resoconto dei primi anni Ottanta. Parlando dei conflitti politici in Kenya, Wainaina descrive la lotta per il potere nella prospettiva di uno stato moderno, non come conflitti atavici di un popolo arcaico. Chi ha pianificato le violenze dopo le elezioni del 2007 vestiva in giacca e cravatta, si muoveva nell’orbita di un governo moderno, in una nazione dove hanno base diverse compagnie multinazionali, c’è la pizza e internet a banda larga.
Nel 2002 Wainaina vinse il Caine Prize per la letteratura africana, un premio del valore di diecimila sterline, che l’anno dopo reinvestì per fondare la rivista letteraria Kwani? (in swahili significa “e allora?”) con base in Kenya, che è diventata un punto di riferimento per la scrittura in tutto il continente. Scrivere è un gesto politico necessario, è lo sforzo di trovare le parole per raccontare quel mondo, per strappare il racconto del suo paese a rappresentazioni esterne. Gli africani devono liberare la loro immaginazione – esorta Wainaina in sei brevi video pubblicati su youtube dal titolo We must free our imagination. Il potere ha paura dell’ immaginazione, pertanto essere creativi, scuotere il sistema con nuove idee e nuove storie è l’atto più politico che si possa compiere.
Nel 2014 Wainaina ha pubblicato un capitolo mancante, in cui dice a sua madre di essere omosessuale. I’m omosexual, Mum era stato scritto per la rivista letteraria Kwani? ma fu presto pubblicato nel resto del mondo. La sua decisione di fare coming out è stata in risposta all’ondata di legislazioni che hanno ulteriormente criminalizzato l’omosessualità in Uganda e Nigeria. Wainaina immagina di trovarsi sul letto di morte della madre, ma – avverte all’inizio – questa non è la corretta versione dei fatti. La madre era morta tredici anni prima, Wainaina si trovava bloccato in Sud Africa per problemi con il visto, non riuscì ad arrivare in tempo per salutarla. Sapeva di essere gay da quando aveva cinque anni ma non aveva le parole per dirlo. L’ 11 luglio 2000, quando morì sua madre, non aveva mai avuto rapporti sessuali con un uomo. Cinque anni dopo la morte della madre ebbe un unico incontro sessuale a pagamento, a Londra. Riuscì a confidarlo al suo migliore amico ma non riuscì a dire di essere gay. Quando sceglie di rendere nota la sua omosessualità, ha quarantatré anni. In seguito alla pubblicazione del capitolo scrive su tweeter, per fugare ogni dubbio: «I am, for anybody confused or in doubt, a homosexual. Gay, and quite happy.» Nel 2014 la rivista Time inserisce il suo nome tra gli uomini più influenti del pianeta.
Dopo anni vissuti all’estero, tra Londra e New York, Wainaina sceglie di tornare in Kenya. In una lunga intervista al Guardian dice: «Questa è casa mia. Ho quarantatré anni, ho problemi alle ginocchia, sono diabetico. Potrei tranquillamente continuare ad insegnare a New York, andare in giro per Brooklyn, avere qualche avventura e scrivere libri fighi. Ma quel tempo è finito. Voglio costruire qualcosa. Mia madre e mio padre non ci sono più. Adesso è il mio turno».
Nel 2016 in occasione della giornata mondiale dell’Aids ha rivelato di essere HIV positivo e nel 2018 ha annunciato di essere innamorato e di voler sposare l’uomo con cui da anni aveva una relazione. Non è accaduto: Binyawanga Wainaina è morto per un ictus a 48 anni, lo scorso maggio, a Nairobi.
Alzo lo sguardo per vedere i fenicotteri che si alzano in volo dal lago, come foglie al vento. Il nostro cane, Juma, ghigna a bocca aperta, ansimando innocuo, e io ho questa sensazione. Una sensazione rosa e azzurra, netta come il cielo chiaro degli altopiani. La pelle d’oca è fatta di migliaia di piume, di uno sciame di persone potenziali in attesa di essere chiamate a uscire dalla pelle del mondo, dalla fede, dalle parole giuste, dal vento giusto. C’è una folata di vento, Dio che respira, e in tutto il lago si alzano un milione di fenicotteri, i bordi del lago Nakuru si sollevano come sottane rosa gonfiate dalle sottogonne che mostrano pezzetti di mutandine azzurre, e Dio trasale, le gonne si alzano di più, gonfiandosi, tutto il lago è azzurro e il cielo è pieno di fenicotteri che volteggiano.
Un giorno scriverò di questo posto è edito in Italia da 66thand2nd