La forma del mondo che abbiamo in testa è stata disegnata nel 1569 da un cartografo fiammingo, Gerhard Kremer, latinizzato Gerardus Mercator, italianizzato Gerardo Mercatore. La Terra è una sfera (non se ne amareggino i terrapiattisti), o meglio un “ellissoide di rivoluzione schiacciato ai poli”, ed è impossibile rappresentare perfettamente una superficie curva su un foglio piano senza operare una qualche distorsione. Non si possono mantenere inalterati contemporaneamente gli angoli, le aree e le distanze reali, si deve quindi scegliere quale delle tre grandezze conservare. Il nostro Mercatore diede preferenza agli angoli: la carta doveva servire a navigatori e mercanti europei, che proprio in quegli anni scorrazzavano in lungo e in largo per i mari del pianeta, alla ricerca di terre da conquistare e ricchezze da commerciare. Mercatore ha ben servito la sua causa, la proiezione realizzata consentiva effettivamente di tracciare precise rotte di navigazione. Ha dovuto però sacrificare la rappresentazione delle superfici, che risultano infatti tanto più deformate quanto più ci si allontana dall’equatore.
Nella cartina che ci accompagna fin dalle scuole elementari la Groenlandia è grande più o meno quanto l’Africa, Sud America ed Europa sembrano equivalersi. In realtà, chilometri quadri alla mano, l’Africa è quattordici volte più grande della Groenlandia, il Sud America quasi il doppio dell’Europa. E ancora: l’India, che in Mercatore appare molto più piccola della Scandinavia si rivela essere tre volte più grande; la Somalia è il doppio dell’Italia; Il Brasile, da solo, è grande quanto gli USA. Per chi volesse dilettarsi esiste un portale che offre una mappa interattiva per conoscere e comparare le reali proporzioni dei vari Paesi. Mercatore scelse inoltre di collocare l’Europa al centro della carta, spostando l’Equatore più in basso, dilatando quindi l’emisfero nord e restringendo l’emisfero sud. Questa è la rappresentazione del globo terrestre ancora oggi più diffusa, ed è così che siamo abituati a pensarci nel mondo. Nel 1973 uno storico tedesco, Arno Peters, ha voluto realizzare un’altra proiezione, che riproducesse invece le reali dimensioni di ogni area della terra. Siamo molto più piccoli e non più al centro del mondo.
L’Africa occupa uno spazio marginale nella nostra conoscenza della storia, della geografia, delle arti e della letteratura. A scuola non si studia, quasi niente anche all’università; se ne parla in TV quando qualche europeo viene sequestrato o tangenzialmente in occasione di qualche guerra; la maggior parte delle persone ci pensa forse a Natale, in qualche lampo di carità cristiana, o con preoccupazione quando si parla di immigrati. Lo scorso ottobre Amref Health Africa-Italia, organizzazione sanitaria che dal 1957 opera nel continente africano, ha reso pubblico un rapporto su come e quanto viene rappresentata l’Africa nei media italiani. Emerge che nell’immaginario collettivo Africa oggi significa soprattutto immigrazione, Libia e instabilità; nella comunicazione social è una voce praticamente assente, salvo per questioni che possono portare conseguenze “in casa nostra”. I mass media se ne occupano solo in termini problematici, mentre la narrazione positiva ci parla ancora sempre di natura selvaggia, animali, deserti, foreste, al massimo bambini sorridenti, persone semplici e spontaneità. Ottimi atleti e gente che ha il ritmo nel sangue. A parlare di Africa sono sempre rappresentanti politici italiani, raramente si chiamano in causa organizzazioni e associazioni umanitarie che lavorano in quel continente, quasi mai si ascoltano persone africane. Il dossier Amref si occupa anche del racconto televisivo e nello specifico dei personaggi delle fiction: gli africani non sono mai tra i protagonisti, i personaggi vengono raccontati con scarso approfondimento psicologico, non ricoprono professioni intellettuali di prestigio.
Il racconto pubblico sull’Africa si basa soprattutto su stereotipi. Il nostro sguardo è filtrato dalla paura di essere invasi, dal nostro senso di insicurezza. Lontana dal tema immigrazione, l’Africa pare essere quasi invisibile, manca il racconto del quotidiano, di reali e contemporanee dinamiche politiche e sociali. L’ignoranza impazza, fino a meravigliarci che queste persone che arrivano da di là del Mediterraneo abbiano un telefonino. L’Africa è un continente con 54 Stati e quasi 2 miliardi di abitanti dove, per citare Giobbe Covatta: «Un etiope e un bantu non sono più simili di un Salvini e un aborigeno australiano, con tutto il rispetto per l’aborigeno australiano.»
Nel 2005 lo scrittore e attivista keniota Binyavanga Wainaina pubblicò sulla rivista inglese Granta un articolo satirico su come realizzare un testo di successo che abbia come oggetto il continente africano. Suggerisce di non mettere mai in copertina un africano ben vestito o in salute, di non parlare di storie d’amore tra africani, né di bambini che vanno a scuola. Vanno bene bambini denutriti con le mosche sugli occhi, donne seminude che vagano per villaggi spettrali in attesa della carità dell’Occidente. Nella presentazione sarà utile usare espressioni come “tribale”, “senza tempo”, “ancestrale”. È importante non essere specifici, fare ritratti rapidi e approssimativi: i personaggi africani devono essere pittoreschi, esotici, senza profondità né desideri. Altre cose importanti: la luce, i tramonti meravigliosi, gli spazi immensi e chiudere con Nelson Mandela. «L’Africa è da compatire, adorare o dominare. Gli stereotipi sono un esercizio di potere – dice Wainaina in un’intervista a The Guardian del 2014 – Per gli occidentali l’Africa è solo una scenografia per parlare dell’Occidente».
Nel 1884 alla Conferenza di Berlino i rappresentanti di quasi tutti gli stati europei – e di nessuno stato africano – hanno disegnato le frontiere dell’Africa. Se vi siete mai chiesti perché, a differenza degli stati europei, molti stati africani hanno confini così stranamente geometrici il motivo è proprio questo: sono stati disegnati arbitrariamente. Inventando dei confini nazionali, i politici europei hanno definito anche delle divisioni linguistiche secondo i termini delle lingue europee: paesi africani di lingua inglese, di lingua francese, di lingua portoghese. Pur esistendo da sempre una ricchissima letteratura orale in Africa, la letteratura scritta si è sviluppata soprattutto nelle lingue di colonizzazione. Grande impulso alla produzione letteraria e culturale sono stati gli eventi che dalla metà del secolo scorso hanno portato gli stati africani ad ottenere l’indipendenza. La letteratura, la poesia, la drammaturgia sono stati luoghi di elaborazione dell’ identità, di affermazione di istanze sociali e politiche ma soprattutto di costruzione di nuove proposte culturali e di invenzione di futuro.
Oggi molti scrittori e scrittrici di origine africana vivono in paesi non africani, hanno prodotto veri e propri capolavori della letteratura contemporanea, alcuni hanno molta visibilità come Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana diventata icona femminista nel 2012 con il discorso Dovremmo essere tutti femministi, che ha ispirato la canzone Flawless di Beyoncé e una maglietta da 550 euro di Dior. In Italia le prime traduzioni di autori africani risalgono agli anni Cinquanta e Sessanta, ma è da pochi anni che la letteratura africana è presente in modo più significativo sugli scaffali delle nostre librerie. Gli autori restano tuttavia in gran parte poco conosciuti. Spesso le opere arrivano in Italia molto in ritardo e ci troviamo a leggere come novità un libro scritto magari vent’anni prima. Un caso fra tutti: Decolonizzare la mente, libro fondamentale per gli studi post-coloniali, scritto da Ngũgĩ wa Thiong’o nel 1986, è stato pubblicato in Italia da Jaca Book solo nel 2015. I grandi editori come Feltrinelli, Einaudi o Mondadori traducono e pubblicano libri che sono già successi internazionali a New York o a Londra o a Parigi, non c’è una vera ricerca a riguardo. Fortunatamente, a rimediare ci pensano alcune case editrici indipendenti, come Edizioni e/o o 66thand2nd, impegnate già da diversi anni in un progetto editoriale per far conoscere questa letteratura in Italia.
Inauguriamo il 2020 con una rubrica di letteratura africana, non perché sia una cosa giusta ma perché c’è tanta bella letteratura e storie potenti da scoprire. L’Africa non è una cosa unica più di quanto non lo sia l’Europa. Eppure lo è nella nostra testa, dobbiamo prenderne atto, come prendiamo serenamente atto di tutti i pregiudizi che possiamo avere. Per almeno due secoli abbiamo conosciuto l’Africa tramite lo sguardo coloniale: razzismo e buonismo, desiderio predatorio e senso di colpa sono facce della stessa medaglia. Il tentativo è provare a guardare al di là: il passato coloniale è importantissimo, ma non necessariamente l’unico motore di dinamiche sociali e culturali. Viviamo un mondo dai confini fluidi caratterizzato da flussi rapidi e massicci di informazioni, beni e persone. Nel brodo della globalizzazione in cui i dispositivi identitari sono sempre meno legati al luogo di origine e sempre più negoziati nel contesto, potremmo scoprire che queste storie lontane riescono comunque a parlare di noi.
Mercatore ci ha portato ad avere un discreto benessere materiale e l’illusione di essere il centro del mondo. Ma anche un pianeta sull’orlo del collasso, dove crescono le diseguaglianze e ogni anno c’è sempre meno gente sul carro dei vincitori. Magari cambiando proiezione, cambiando storie, cambiando prospettiva arriveranno idee migliori.
Il primo libro della nostra rubrica sarà Un giorno scriverò di questo posto di Binyavanga Wainaina. (66thand2nd, 2013)