Novembre 2019. Vampate di fuoco fuoriescono dalle ciminiere di una raffineria illuminando a giorno il cielo – sullo sfondo le luci di uno sprawl sconfinato. Un aerotaxi attraversa il campo visivo, lo seguiamo fino al suo arrivo sulla pista di atterraggio della tecnopiramide sede della Tyrell Corporation, una delle multinazionali più potenti del mondo. Dal dialogo tra l’occupante del taxi e il CEO della società avrà inizio Blade Runner, una storia memorabile di androidi fuggitivi e cacciatori solitari che contribuirà a ridefinire l’estetica e le tematiche della fantascienza per i decenni successivi.
“Sprawl” secondo la Treccani è sinonimo di locuzioni come città diffusa e definisce le espansioni a bassa densità e alto consumo di territorio.
Verso la fine dello stesso mese, nel mondo reale, la tradizionale classifica di Forbes elegge le aziende più potenti del mondo: nonostante la Tyrell Corporation sia frutto dell’immaginazione, le prime 5 si occupano di tecnologia e hanno sede nella Silicon Valley. Tra i vari progetti, tutte investono una parte consistente del loro budget nella ricerca su Intelligenze Artificiali, reti neurali e robotica. Per il momento, di aerotaxi non sembra esserci nemmeno l’ombra. La nascita di corporation che si vanno a sovrapporre ai tradizionali Stati-nazione è uno dei topoi più diffusi in una certa derivazione della fantascienza, quella new wave che a partire dagli anni ’60 – ’70 troverà, in autori come Phlip K. Dick (non a caso autore del racconto da cui sarà tratto Blade Runner) e J.G. Ballard, degli acuti indagatori degli spazi grigi che esistono tra i vantaggi e i rischi del progresso scientifico. Altri casi celebri in questo senso sono ad esempio la Weyland-Yutani di Alien (ancora una volta di Ridley Scott), arrivata addirittura a costruire una propria forza di esplorazione spaziale (vi ricorda qualcuno?), e ancora la Shinra Corporation di Final Fantasy 7, questa volta impegnata nell’estrazione della linfa vitale del pianeta stesso.
Tuttavia, nonostante la capacità di influenzare l’immaginario di diverse generazioni, nessuna di queste storie è riuscita ad intuire che le più potenti aziende del mondo si sarebbero fondate su semplici informazioni.
I dati sono stati il vero oro nero del decennio. Chi è stato così lungimirante da capirlo in tempo si è arricchito enormemente in termini sia finanzari che politici.
Dati personali, log, informazioni provenienti dai cookies, transazioni bancarie. Sono solo una parte dell’enorme network che viene utilizzato per creare valore dalla vita di ogni persona in possesso di una connessione ad internet, tramite tecniche di analisi e algoritmi a volte piuttosto sofisticati.
Facciamo una ricerca su Google, e nei banner pubblicitari di Facebook compaiono suggerimenti mirati verso le nostre esigenze; le piattaforme di e-commerce sembrano avere sempre la soluzione migliore per i nostri desideri, anche lo streaming di musica e video è guidato da algoritmi che dovrebbero suggerire la playlist o il film giusto per passare un paio d’ore. Ci sono una serie così grande di vantaggi e semplificazioni nel modo in cui la tecnologia ha cambiato la nostra vita che per lungo tempo non ci si è soffermati a riflettere a nessun livello, delle conseguenze che l’immissione gratuita di dati personali avrebbe potuto generare: ci ritroviamo, alla fine del decennio, in un mondo completamente governato da essi, tanto che è stato possibile in diversi casi influenzare i risultati elettorali tramite operazioni di microtargeting.
Per capire come siamo arrivati ad un livello di complessità tale, dobbiamo fare un passo indietro fino all’inizio del decennio.
Gennaio 2010. Facebook è ormai da un anno il social network più utilizzato in tutto il mondo dopo aver scalzato Myspace. Le serviranno altri due anni per raggiungere la cifra astronomica di un miliardo di utenti. La tecnologia touchscreen è ormai arrivata ad un livello di ottimizzazione tale da permetterle di scalzare definitivamente la tastiera tradizionale dagli smartphone; verso la fine dell’anno cominciano ad essere commercializzati i primi device con connettività 4G. Dopo un periodo di preparazione del terreno durato per tutti gli anni Duemila, le infrastrutture tecnologiche sono ormai pronte per sostenere la vera globalizzazione della rete – è diventato possibile interagire live da tutto il mondo, tramite dispositivi portatili che hanno raggiunto la potenza di un computer di qualche anno prima. Tutti hanno un abbonamento internet sul proprio telefono, e tutti ne fanno uso.
La mole di dati messi a disposizione dagli utenti cresce a dismisura, e insieme ad essa cresce una nuova sensibilità verso i possibili utilizzi di essi. Le firm che governano il mondo digitale hanno un bisogno vitale di questo tipo di informazioni, per profilare i propri utenti e creare un’esperienza sempre più personalizzata. Nasce una nuova professionalità, quella del data scientist, esperto di tecniche analitiche che combinano statistica, analisi dei testi e algoritmi, tramite cui analizzare e gestire le informazioni provenienti dagli ambiti più disparati, incrociandole tra di loro per ottenere nuove informazioni, spesso a livello di cluster di soggetti con caratteristiche simili. Per diversi anni queste informazioni sono state sfruttate senza alcun tipo di protezione e riguardo nei confronti degli utenti coinvolti (tutti noi), e questo ha portato ad una serie di dovuti all’uso troppo libertino che si faceva di esse, soprattutto se parliamo di Facebook, la maggiore fonte di dati al mondo.
Contro questa situazione di anarchia digitale ha cominciato a muoversi l’Unione Europea, che nella primavera del 2018 ha messo in esecuzione il General Data Protection Regulation (GDPR), un regolamento che per la prima volta definisce i diritti digitali degli utenti e gli obblighi delle aziende che trattano i dati personali, e più in generale qualsiasi tipo di dato online. Lo scopo è quello di garantire la salvaguardia della privacy e della identità digitale degli utenti, prevedendo tra le altre cose informative obbligatorie sull’utilizzo che ogni sito o piattaforma online potrebbe fare delle informazioni lasciate dai propri utenti.
L’iniziativa è della massima importanza, e nel giro di un anno ha già cambiato all’interno dell’UE la sensibilità sui rischi della privacy digitale. Rimane il nodo legato ai Paesi extraeuropei, in particolare le aree cinese-asiatica, russa e statunitense, e alla possibilità che regolamenti analoghi vengano sviluppati anche lì.
In una storia degli anni ’90, il Prof. Bad Trip immaginava, con il suo sogno lisergico, il mondo del 2020 come una degenerazione orwelliana di psicopolizia, controllo coatto dei comportamenti e plagio mentale. Finché non ci sarà una equiparazione dei regolamenti mondiali e rimarrà una sostanziale disparità tra i trattamenti di dati, in mano a vere e proprie superpotenze private, un futuro del genere potrebbe essere meno improbabile di quanto sembri.
Buon decennio.