- Il progressivo disimpegno statunitense quale gendarme del mondo;
- la crescente influenza cinese;
- il ritorno dell’orso russo;
- le spallate indiane;
- le tensioni nel lontano oriente;
- la guerra civile del Medio Oriente;
- i fermenti in Nord Africa;
- i conflitti endemici nell’Africa Sub sahariana.
Sono tutti fattori che mettono in dubbio il sistema geopolitico polarizzato che ha governato il mondo dalla seconda guerra mondiale fino alla crisi Siriana, scoppiata all’inizio del decennio. La guerra per il controllo di Damasco ha probabilmente sancito in maniera definitiva la fine del mondo unipolare, il dominio della superpotenza americana incontrastato dopo il crollo dell’Urss. L’unica grande assente nel nuovo concerto delle nazioni è l’Europa, intesa come soggetto politico unitario: la caduta del Muro ha «scongelato torrenti geopolitici rimasti ghiacciati per quarant’anni». L’unica certezza degli ultimi dieci anni è la progressiva regionalizzazione dei conflitti e l’abbandono della politica multilaterale a vantaggio degli accordi bilaterali.
Per comprendere i motivi degli scontri occorre definire la posta in gioco:
- l’avido controllo delle risorse energetiche;
- il controllo degli spazi commerciali;
- il controllo delle infrastrutture;
- il controllo dell’infosfera (neologismo coniato per individuare l’area di influenza informativa);
- l’egemonia regionale e non ultimo «il modello culturale del prossimo millennio»
(parole del Presidente cinese Xi al 19° congresso del PCC del 2017).
L’ ultimo anno del decennio si è aperto con il rientro in Italia del terrorista Cesare Battisti, evento di apparente interesse nazionale, ma che racchiude un ultimo tentativo di Evo Morales – primo e unico presidente indigeno della Bolivia – di mantenere i buoni rapporti con il grande vicino brasiliano (primo importatore del gas boliviano), nella speranza di conservare l’ultimo baluardo del paradigma chavista-bolivariano in un Sud America in subbuglio. Il 2019 ha fatto riemergere tutte le tensioni sopite in un continente che non ha ancora trovato un equilibrio socio-economico tale da consentire l’affrancamento dalle feroci fauci di attori esterni: Stati Uniti in primis e, negli ultimi decenni, la Cina. Il miracolo cileno si è inceppato; l’Argentina sembra poter ripiombare da un momento all’altro nell’ennesima crisi politico-economica; il Brasile non riesce a emergere come modello trainante per l’area. A questi aspetti si aggiunge la crisi ambientale che ha colpito la foresta amazzonica e il continuo movimento di popolazione verso il ricco Nord America, che attira molte energie dell’agenda politica del Presidente statunitense. Pensare che le scommesse di dieci anni fa prevedevano il Sud America trainato dal modello brasiliano.
Il Pacifico ed il mar Cinese meridionale sono i teatri principali dello scontro commerciale Cina-USA, che coinvolge di fatto tutti gli stati dell’area. Lo scopo statunitense è quello di limitare l’ascesa di una potenza euroasiatica e di continuare a mantenere il dominio dei mari (un metodo già adottato dall’impero Britannico); lo scopo cinese è tutelare la propria costa e difendere i propri flussi commerciali: dove arriverà questo scontro? Per ora è da escludere un conflitto aperto, visto che la Cina ha iniziato solo dal 2015 l’ammodernamento delle proprie forze armate e la marina cinese non è in grado di fronteggiare quella statunitense: non solo per equipaggiamenti, ma soprattutto per esperienza maturata sul campo.
A queste frizioni si aggiungono quelle secolari tra attori regionali: gli stati dell’estremo oriente, Giappone in testa, temono l’annessione alle acque territoriali di Pechino di quasi il 90% del mar Cinese meridionale. La Cina ha chiarito, in occasione delle celebrazioni per i settant’anni della Repubblica Popolare, la sua politica regionale: un’unica Cina, segnale che prima o poi lo status di Hong Kong e di Taiwan potrebbe cambiare. Per il lontano oriente, però, l’evento con il maggior impatto mediatico (ma scarso impatto diplomatico) è stato senza dubbio l’incontro nella zona demilitarizzata del 38°parallelo, avvenuto il 30 giugno 2019: il risultato è ancora una volta la dimostrazione che la politica estera americana di matrice trumpiana predilige i rapporti bilaterali a quelli dei consessi multinazionali.
Il subcontinente indiano, ancora lungi dal divenire traino regionale, è alle prese con la questione del Kashmir che da sola assorbe tutte le energie degli attori dell’area. La zona contesa è ancora la più militarizzata al mondo e la politica nazionalista indù del presidente Modi non fa altro che mantenere alta la tensione. L’abolizione dello status speciale del Kashmir ha riacceso la miccia nella popolazione a maggioranza musulmana della regione: da vent’anni non si verificava nella regione un’escalation come quella di agosto. Ma non c’è solamente la regione contesa alla base dello scontro con il Pakistan: dal tentativo di regolare la questione afghana, dopo la promessa del disimpegno Usa, passa gran parte del futuro dei traffici commerciali verso l’Asia centrale. Per realizzare la politica commerciale intra-asiatica sono in corso tentativi di alleanze tra gli stati che si affacciano nel golfo dell’Oman. Da anni ormai sono in corso colloqui bilaterali: da un lato India e Iran, dall’altro Pakistan e Arabia Saudita. Questioni al centro di questi contatti sono la lotta al terrorismo e il bilanciamento del controllo dei traffici marittimi che permettono l’accesso alle aree dell’Asia centrale. Il porto iraniano di Chabahar è infatti considerato dall’India un ottimo escamotage per aggirare quello pakistano di Gwadar avere così un accesso al mercato centro-asiatico.
Ma l’area che desta maggior interesse a livello geopolitico è senza dubbio il Vicino oriente. Dalla Turchia allo stretto di Hormuz è in atto uno scontro di potenze globali e regionali. La guerra civile in Siria ha riportato la Russia nel consesso geopolitico che conta. Benché l’orso russo abbia una economia debole, può sfruttare l’esperienza di una politica estera lunga più di un secolo. Un secolo nel quale, fin dai tempi degli Zar, l’obiettivo è rimasto immutato: la ricerca dello sbocco verso i mari caldi. La regione risente ancora della gestione a tavolino dello smembramento dell’impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale e gli eventi di questi ultimi dieci sono lì a testimoniarlo: a partire dalla questione curda passando per il neo-nazionalismo della Turchia confessionale per finire con la crisi del sistema libanese e il mai sopito conflitto israelo-palestinese.
Discorso non troppo diverso per l’Africa, che si conferma terra di conquista: non basta l’accordo per una Zona di libero scambio continentale raggiunto in Niger lo scorso luglio. I problemi del continente sono ancora tanti, a partire dalle aree di crisi umanitaria e politica come la Libia, il Sudan e la regione centrafricana. Pensare che nel 2011 si erano accese le speranze degli osservatori internazionali e dell’opinione pubblica affinché l’area potesse esplodere in una primavera di democrazia. La deposizione del leader libico Gheddafi, i conflitti nell’area del Sahel contro le formazioni del gruppo terroristico Boko Haram, le questioni interne in Mali e la crisi sanitaria nella parte occidentale hanno aumentato il flusso umano che attraversa il continente sia per migrazione interna che per viaggi ben più rischiosi. Una questione cruciale, quest’ultima, che chiama in causa il “grande malato” con cui concludiamo questa panoramica: l’Unione europea, simbolo e sintomo di una politica globale che sta via via abbandonando i consessi multinazionali a vantaggio di una risoluzione bilaterale dei conflitti. La retorica dell’integrazione ha ormai i giorni contati: senza uno sforzo comune degli stati membri verso la creazione di un soggetto politico forte, in grado di imporre una visione condivisa, il progetto è destinato a fallire. Lo scongelamento di vecchi rancori nazionali e di spinte indipendentiste, il mancato accordo su Brexit e la mai sopita questione balcanica hanno paralizzato il corso della politica dell’Unione anche riguardo questioni importanti come il caos nel Vicino oriente.
Si avvia alla conclusione un decennio che dal punto di vista geopolitico ha abbandonato molte delle iniziali speranze di un mondo aperto e multinazionale in grado di regolare le conseguenze della crisi finanziaria del 2008. Gli anni venti si aprono con interrogativi su quale possa essere la ricetta vincente che assegnerà l’ordine geopolitico del XXI secolo: il socialismo con caratteristiche cinesi o un rinnovato liberalismo occidentale fondato sullo stato di diritto? Si apre una nuova partita che non potrà essere giocata con i paradigmi della Guerra Fredda perché si rischia di perdere in partenza.