Ottant’anni fa, nell’estate del 1939, all’alba della Seconda Guerra Mondiale, usciva nelle sale cinematografiche Il mago di Oz. La giovane Judy Garland, sofferente e sognante, cantava Somewhere over the rainbow dopo la sgridata della sgraziata zia Em: «Tu ti agiti sempre per delle sciocchezze! Trovati un posto dove stare tranquilla, senza cacciarti nei guai!». Judy Garland/Dorothy Gale andava in cerca, da qualche parte al di là dell’arcobaleno, di quel luogo dove «i sogni che osi sognare, per davvero diventano realtà». Accade allora una cosa straordinaria: il vento del Nord e il vento del Sud si scontrano proprio nel punto dove si trova Dorothy, che diventa il centro di un uragano così forte da sollevare tutta la casa con lei stessa dentro. La casa vola via nel cielo lontano verso un mondo di vivissimi colori. È la forza inesorabile del desiderio. Dorothy è orfana, non si sa chi siano i suoi genitori, non se ne parla mai. È orfana come sono orfani Harry Potter, Oliver Twist o Candy Candy: sola di fronte al mondo, senza nessuno che si prenda cura di lei. Vive in un Kansas metafisico, grigio e desolato con gli zii, nervosi e meschini, troppo indaffarati in un assurdo censimento delle uova per parlare con lei.
Il film è una trasposizione tutto sommato fedele del romanzo Il meraviglioso mondo di Oz, scritto nel 1900 da Lyman Frank Baum, che fu autore di una grande opera di successo e di una serie di clamorosi flop. Ebbe una vita bizzarra e piena di alti e bassi: nato ricco, ereditò dal padre una catena di piccoli teatri che perse uno dopo l’altro a causa della sua pessima amministrazione. Il successo di questo romanzo fu enorme, tanto che negli anni successivi ne scrisse altri tredici, tutti ambientati nel magico mondo di Oz. Pare che O-Z fosse la sigla che indicava l’ultimo cassetto del suo archivio; ma c’è anche chi dice che Oz stia per l’abbreviazione di oncia, unità di misura anglosassone; oppure c’è chi dice che sia stato inventato di sana pianta senza voler significare nulla.
Nel 2018 uno studio dell’università di Torino ha segnalato Il mago di Oz come “film più influente della storia”. L’obiettivo della ricerca, condotta attraverso un algoritmo che ha analizzato oltre quarantasettemila film dell’archivio online di Amazon, era misurare il successo di un film tenendo conto di quanto abbia influenzato altri film, sia dal punto di vista artistico che economico. Da Elton John, ai fratelli Coen, a David Lynch, alle più recenti fiabe dark come Tideland (film di Terry Gillian basato sul precedente romanzo di Mitch Cullin), gli omaggi espliciti o subliminali a Oz sono tantissimi.
Nel 1992 lo scrittore indiano Salman Rushdie dedicò un saggio all’analisi di questo film e a ciò che ha rappresentato per la sua vocazione artistica. Il mago di Oz è stata la prima influenza letteraria, l’opera che ha fatto di lui uno scrittore. Non il libro, il film. Secondo Rushdie «la forza propulsiva de Il mago di Oz è l’inadeguatezza degli adulti, anche di quelli buoni, e il fatto che la loro debolezza obbliga i bambini a prendere in mano il proprio destino e a crescere da soli». Non ci sono eroi, soprattutto non ci sono eroi maschili. I tre compagni di viaggio di Dorothy, il Leone, lo Spaventapasseri e l’Uomo di latta sono come gli uomini vuoti della poesia di T.S.Eliot: a ognuno manca qualcosa per essere vivo e completo. Il Leone codardo non ha coraggio, lo Spaventapasseri non ha cervello e l’Uomo di latta non ha il cuore. L’uomo vuoto per eccellenza è il Mago, che dietro una rutilante scenografia, con fuochi d’artificio ed effetti speciali, nasconde la propria vigliaccheria, impotenza e attaccamento al potere. L’insegnamento è chiaro: «la nostra fiducia nei maghi deve perire perché possiamo cominciare a credere in noi stessi». Rushdie rifiuta la piccola omelia conservatrice del finale: davvero tutto quello che Dorothy ha imparato è di non cercare la felicità più in là del cortile di casa? Tutto il contrario. Questo è un film anarchico, radicale, che parla dell’esilio, della ricerca di un luogo migliore dove realizzare la propria esistenza, che insegna nel modo meno didattico possibile a costruire su ciò che abbiamo, a scoprire che un diverso ordine dell’esistenza è possibile. Nel grigio Kansas a cui fa ritorno nessuno le crede, tutti pensano che lei abbia solo sognato.
Il cuore del film è chiaramente la canzone Over the rainbow che, ricorda Rushdie, «stava lì lì per essere espunta dal film, cosa che dimostra che Hollywood crea capolavori per puro caso, semplicemente non sapendo ciò che sta facendo». È il momento emotivo più potente, celebrazione della fuga, un inno all’altrove, all’Io sradicato, «Over the rainbow dovrebbe essere l’inno di tutti gli emigranti del mondo, di tutti quelli che vanno alla ricerca di un luogo in cui i sogni che osi sognare, realmente si avverano». All’epoca in cui scrive, Rushdie da tre anni viveva in esilio, sotto la protezione del governo britannico: nel 1989 il leader politico e religioso dell’Iran, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, aveva lanciato una fatwa contro di lui per aver scritto il romanzo I versi satanici, questa condanna imponeva teoricamente a qualsiasi musulmano di ucciderlo.
Il sogno umano del partire è forte almeno quanto il suo contrario, il sogno delle radici. E così tutto il viaggio di Dorothy nel regno di Oz è la ricerca della strada di casa. Nel cammino incontra lo Spaventapasseri, il Leone e l’Uomo di Latta, anch’essi in cerca di una vita migliore, anch’essi con la speranza che il mago di Oz possa aiutarli. Sono disposti a sottostare ad assurde richieste, ad attendere giornate intere prima di essere ricevuti, a rischiare la vita per lui, perché hanno fede. Ma il mago di Oz non ha nessun potere, è un ciarlatano, un ometto che si finge terribile e potente con trucchi da vero cialtrone. Non è in grado di mantenere le promesse fatte, la sua parola non vale nulla. Ma proprio nel momento in cui viene smascherato riesce a fare una magia e a mostrare ai tre strani amici quelle qualità che credevano di non possedere: lo spaventapasseri ha dimostrato intelligenza, l’uomo di latta ha un tenero cuore, il leone è stato all’altezza di azioni coraggiosissime. Dentro di loro c’era già tutto, solo che non lo sapevano. E la povera Dorothy come farà a tornare a casa? Glinda, la fata buona, le rivela finalmente che le scarpette che porta ai piedi (eh sì, che aveva portato ai piedi per tutto il tempo) hanno il potere di trasportare chi le calza in qualsiasi parte del mondo. Dorothy avrebbe potuto tornare a casa già dal primo giorno, ma nessuno glielo aveva detto.
Insomma, se il famoso mago è in realtà un inaffidabile bugiardo, pure la fata buona non è stata di grande aiuto. D’altra parte anche il mago dice di sé di essere un «uomo buono ma un cattivo mago». Le figure di riferimento non sono in grado di far da riferimento, la vera risorsa sono gli amici, i compagni di viaggio. La magia è che non c’è nessuna magia, Dio è morto e non è arrivato nessuno a rimpiazzarlo. Ma questa non è necessariamente una cattiva notizia. Il mondo immaginato può diventare reale e una volta che abbiamo abbandonato l’infanzia e abbiamo iniziato a dare una fisionomia alla nostra vita, armati solo di quello che siamo, capiamo che la nostra casa non esiste più. Ed è vero allora che «non c’è nessun posto come casa», ma casa è il posto che creiamo per noi stessi, che è ovunque fuorché da dove abbiamo cominciato.
Con questo film Judy Garland è diventata un’icona, ma il prezzo da pagare è stato davvero alto. Sulla pelle di una ragazza di 17 anni si è offerto al mondo un sogno, mentre l’attrice si avviava su un cammino di tossicodipendenza e autodistruzione. Frances Ethel Gumm era il suo vero nome, nata in una famiglia di artisti di vaudeville, la prima volta che si esibì su un palco aveva due anni e mezzo. La madre particolarmente spregiudicata e ambiziosa, cominciò a procurarle pillole di vario tipo che non aveva ancora dieci anni. Più tardi Garland ricorderà sua madre come «la vera strega cattiva dell’ovest». Da un anno prima di girare Il mago di Oz e durante tutto il periodo di lavorazione, il peso e l’alimentazione della piccola Judy erano quotidianamente monitorati, ricorrendo a farmaci e a diete estreme. Artista meravigliosa di straordinario talento, ebbe una vita segnata da droghe, alcol, periodici ricoveri in cliniche, disperate cure dimagranti, tentativi di suicidio, quattro divorzi, cinque matrimoni e tre figli di cui non si è presa cura. Morì a 47 anni per un’overdose accidentale di barbiturici.
Lo psicoanalista e filosofo statunitense James Hillman ne Il codice dell’anima parla molto e con molta tenerezza della vicenda biografica e artistica di Judy Garland: «tra gli anni Trenta e Quaranta, il suo contributo alla macchina bellica americana consistette nel fornire la droga antidepressiva più apprezzata e irrinunciabile, senza la quale l’America non poteva combattere, produrre, arrivare a sera: il mito dell’innocenza, la psicologia della negazione. Il pubblico continuava ad applaudire, non smetteva mai di richiamarla sul palco, non come un’artista che avesse fatto un bello spettacolo, ma come qualcuno che ci avesse offerto la salvezza». L’ultimo verso della canzone dice: se possono gli uccellini blu, se felici uccellini blu possono volare oltre l’arcobaleno, perchè non posso farlo io?