Alla fine dell’anno, puntuale come il ritardo nell’acquistare i regali di Natale, si apre la discussione sulla crescita attesa e prevista del PIL, parametro alla base delle scelte di politica economica e indicatore dell’andamento presente e futuro del Paese.
Ma questo PIL, di preciso, cos’è?
Il PIL, cioè Prodotto Interno Lordo, rappresenta il valore complessivo di tutti i beni e i servizi finali prodotti in un’economia. Si sottolinei “finali”: il PIL comprende solo i beni e i servizi che non entrano più nel processo produttivo (cioè i cosiddetti “beni intermedi”), ma solo cioè che è pronto per essere consumato.
Un esempio può aiutare a capire. Consideriamo lo Stato di IKEA. Ad IKEA esistono solo due imprese: un boscaiolo e il falegname. Il boscaiolo, nell’ultimo anno, ha tagliato un albero e ha venduto il legno al falegname, per 100€. Il falegname ha preso il legno e lo ha trasformato in un mobile, che ha venduto a 200€.
Il PIL di IKEA non è 300€ (i 100€ del boscaiolo più i 200€ del falegname), ma solamente i 200€ del falegname che rappresentano i beni finiti.
Ci sono altre due chiavi di lettura del PIL: da un lato esso rappresenta la somma dei valori aggiunti prodotti in un Paese; dall’altro esso rappresenta il totale dei salari distribuiti nel Paese.
Torniamo a IKEA: il boscaiolo parte da 0 e, con il suo lavoro, crea 100€ di valore aggiunto. Il falegname prende un bene che vale 100€ (il legno grezzo) e lo trasforma in un bene che vale 200€, aggiungendo 100€ di valore. Quindi il valore aggiunto complessivamente prodotto da IKEA è 200€: 100€ dal boscaiolo e 100€ dal falegname.
Inoltre, il boscaiolo vende il legno a 100€: non deve pagare nessuno, quindi questa cifra rappresenta il suo stipendio. Il falegname vende sì a 200€, ma da questa somma va tolto quello che deve al boscaiolo, e quindi a lui restano in tasca 100€. Nuovamente, il valore complessivo dei salari di IKEA è 100€ del boscaiolo e 100€ del falegname.
Quindi, il PIL è contemporaneamente:
- Il valore dei beni e servizi finali prodotti in un anno in un Paese;
- Il valore aggiunto complessivo prodotto in un anno in un Paese;
- Il complessivo dei salari distribuiti in un anno in un Paese.
Passa un anno e una terribile malattia si abbatte sulle foreste di IKEA: il boscaiolo per tagliare un albero ha fatto molta più fatica, e quindi pensa di vendere il legno a 150€. Il falegname compra a 150€ e decide di vendere il mobile a 250€, così che a lui rimanga la stessa cifra dell’anno prima.
Il PIL di IKEA passa quindi a 250€.
Il PIL si distingue in reale e nominale. Il PIL reale è la somma dei beni e servizi se fossero stati venduti ai prezzi di un anno di riferimento; il PIL nominale è la somma dei beni e servizi venduti ai prezzi correnti. Quindi, il PIL nominale cresce anche se crescono solo i prezzi – come è successo nel nostro esempio – mentre il PIL reale cresce solo se aumentano i beni e servizi prodotti. Il PIL reale – che è un escamotage formale, ovviamente: si fissano dei prezzi standard e si moltiplicano dei volumi di beni e servizi per quei prezzi – da una dimensione della crescita complessiva che dipende solo dai volumi. Per questo, quando si guarda un trend (“il tasso di crescita del PIL 2020 sarà…”) ci si riferisce, di solito, al PIL reale e non a quello nominale.
Nel nostro caso, il PIL nominale di IKEA passa da 200€ a 250€. Il PIL reale non si muove: ipotizziamo di utilizzare come riferimento i prezzi del primo anno, l’albero tagliato dal boscaiolo sempre 100€, e il mobile prodotto dal falegname vale sempre 200€. Il PIL reale si modifica solo se varia la quantità di beni e servizi prodotti.
Quindi il PIL è un numero?
No.
O meglio: il PIL in sé sarebbe un numero, ma è impossibile da conoscere con precisione. Pensate all’Italia: è materialmente impossibile sapere il valore complessivo di tutti i beni e i servizi scambiati nel Paese – a meno che metà della popolazione non venga assunta dall’ISTAT e dislocata nei bar, a tener conto su un taccuino di tutti i caffè venduti nell’anno. Il valore del PIL comunemente utilizzato è frutto di una stima, partendo da dei valori più facili da conoscere (ad esempio la produzione industriale) e tirando fuori il numero finale tramite un modello.
Inoltre, il processo di stima viene perfezionato nel tempo, ad esempio inserendo dei dati più precisi come base del modello o aggiungendo rilevazioni che non erano disponibili in un primo momento. Per questo motivo, la stima del PIL di un anno varia nel tempo. Considerate ad esempio il 2015. Quant’era il PIL nel 2015? La prima rilevazione ISTAT, rilasciata a marzo 2016, indicava 1.636.372 milioni di Euro. Questa stima è stata aggiornata e rivista nelle quattro release successive – sempre al rialzo – e poi rivista per un’ultima volta, al ribasso, fra l’aprile e il settembre del 2018. A settembre 2018 ci si è fermati su un valore di 1.652.085 milioni di Euro.
È paradossale pensare quanto tutta la politica economica (pensate solo a quante volte, in questo periodo dell’anno, si sente “il deficit al X% del PIL”, o “la spesa pubblica che sale all’Y% del PIL) sia incentrata su un numero che nessuno conosce. Il PIL del 2015 è stato conosciuto – o meglio: la miglior stima possibile del PIL 2015 – solo a fine 2018, quasi tre anni dopo. Le fondamenta strutturali della nostra politica economica sembrano un po’ più deboli, vero?
Quanto è importante il PIL?
Sebbene l’importanza di misurare la capacità di uno Stato di creare reddito fosse una cosa già nota (ne parla già Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni), le oggettive difficoltà tecniche nello stimare il PIL ne hanno rallentato di molto l’introduzione come strumento di politica economica. Il primo a sistematizzare una metodologia di stima del Prodotto Interno Lordo è stato Simon Kuznets, economista statunitense di origini bielorusse che, nel 1934, pubblicò la prima serie del PIL degli Stati Uniti.
Fu tuttavia Kuznets stesso a evidenziare, durante la presentazione dei risultati al 73esimo Congresso degli Stati Uniti, i limiti del concetto di PIL: “The welfare of a nation can scarcely be inferred from a measure of national income.”
Il PIL è una misura parziale e incompleta: da solo un’idea di quanto sia grande la torta, ma non da nessuna indicazione di come essa venga distribuita. Inoltre, nel PIL non entra nessun aspetto legato alla qualità della vita, al welfare, al benessere. Sapere il PIL di un Paese non dà nessuna indicazione di come, in quel Paese, si viva.
Le critiche al concetto di PIL si inseriscono in quattro grandi dinamiche:
- Essendo un indice aggregato, non da nessuna informazione circa l’equità della distribuzione del reddito;
- Inoltre, proprio in quanto indice aggregato, non da nessuna indicazione sulla natura dei beni e servizi prodotti, né sulla loro qualità: il PIL prodotto con la creazione e la vendita di libri è sullo stesso piano del PIL prodotto con la creazione e la vendita di lotterie;
- Essendo il valore dei beni e servizi venduti cattura solo ciò che passa attraverso il mercato – e quindi non tiene conto né del sommerso né di tutto ciò che è scambiato a titolo gratuito o con altri mezzi di pagamento;
- Non considera i costi delle esternalità prodotte dal sistema: produrre un bene in una fabbrica super inquinante e produrlo in una fabbrica green non incidono sul valore finale del PIL.
Per questi motivi, si stanno diffondendo una serie di indicatori complementari al PIL il cui scopo è misurare il benessere delle persone, per capire se, al netto della dimensione della torta, questa stia diventando più buona. In Italia, dal 2013, viene diffuso il Rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile), una raccolta di indicatori che serve proprio a complementare il PIL e rappresentare tutto quello che nel PIL non c’è.
A 85 anni dalla prima pubblicazione di un PIL e dalla prima diffida a considerare il PIL come il Verbo, il pensiero economico – me soprattutto politico – sta iniziando a capire che, nella vita, c’è qualcosa oltre al numero magico del PIL.