Un antico aneddoto di strategia cinese è definito “strategia della fortezza deserta”.
Attorno al 200 d.C., due generali appartenenti a due fazioni rivali, Cao Cao e Zhao Yun, si sfidavano da anni senza riuscire a sconfiggersi. Si racconta che un giorno Zhao Yun fosse riuscito a radunare, al di fuori del castello di Cao Cao oltre 10’000 truppe ben addestrate e si stesse preparando ad un’offensiva che avrebbe spazzato il rivale. Cao Cao che aveva mandato i suoi uomini a raccogliere delle derrate alimentari nella campagna circostante, era a corto di soldati ed era stato colto alla sprovvista. Ma decise di non abbattersi e provò ad attuate un ingegnoso stratagemma. Ordina ai pochi abitanti nel castello, principalmente donne e bambini, di indossare vestiti militari, divise e armi. Zhao Yun, avvicinatosi a chiedere la resa, vede e riconosce delle donne a presidiare l’ingresso e crede che si tratti di una trappola del furbo Cao Cao e quindi decide, in accordo con i suoi generali, di non attaccare subito e di aspettare il giorno dopo, paventando si trattasse di un’imboscata. Questo ritardo permise all’esercito di Cao Cao di rientrare dalla missione e cogliere l’esercito di Zhao Yun alle spalle e massacrarlo.
Quest’estate ho accompagnato degli imprenditori italiani a visitare l’area industriale di Wenghzou e Shanghai. I miei interlocutori si sprecavano in elogi di quella che era la condizione della Cina, eppure nella mia esperienza di lavoro alla Banca Mondiale, quelle impressioni non mi sembravano corroborate dai dati: povertà, aree rurali profondamente depresse, indici della qualità della vita inferiori a molti altri paesi, per non citare le condizioni dei musulmani nell’area di confine del Xinjiang, l’inquinamento ambientale. Ed erano solo alcune delle cose che mi venivano in mente. Ma, per quieto vivere, decisi di tacere. Uno dei presenti, un imprenditore barese sulla cinquantina, l’aveva definita svariate volte «il nuovo paradiso dell’economia capitalista, il futuro». Aveva poi aggiunto frasi come «se riesci ad entrare nel mercato cinese, hai vinto». Era esasperato dalla sua esperienza in Italia: «in Puglia i miei dipendenti, diceva, alle 18 staccano e il fine settimana non rispondo nemmeno se vai a suonargli a casa! Qui, invece, si che sanno che cos’è il senso del lavoro!».
In effetti, pensai, se guardate dal lato del profitto, le sistematiche violazioni dei diritti umani non sono altro che una riduzione dei costi di produzione. Eppure, questa eterna sensazione che la Cina sia ormai ad un passo dal raggiungere l’Occidente, è pervasiva, specialmente dal punto di vista economico. Dopo qualche giorno nella provincia cinese, diligentemente scortato da un numero imprecisato di guide, che sembravano più intente ad evitare che alcune cose si vedessero, più che spiegarne altre, mi ha sfiorato la sensazione di fare parte di una rappresentazione teatrale. In fondo non stavamo vedendo altro che una piccola frazione di quella realtà cinese che in un territorio così grande non poteva che essere poliedrica. Ma allora mi sono chiesto, in un mondo in cui l’apparenza conta quanto la realtà, quanto è lecito domandarsi se uno stato totalitario possa intervenire proprio su questa percezione? L’unico parametro che sembra contare qualcosa in questa dissertazione è l’economia.
Sono proprio i vari indicatori economici ad incentivare il dubbio, che negli anni si è posto non solamente il dipartimento di stato americano ma l’intera comunità economica. Soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, quando l’economia cinese sembrava continuare imperterrita lungo il suo percorso di crescita. Sembra strano, in un’economia così profondamente legata al mercato internazionale – soprattutto dal punto di vista delle esportazioni – che la crisi economica globale non avesse avuto nessun’impatto.
Da diverse indagini – su tutte quella della Brookings Insitution e della Federal Reserve di San Francisco – emerge che il PIL – indicatore che cerca di quantificare, non senza disaccordo nella comunità economica, la ricchezza di un paese – della Cina sia strutturalmente sovrastimato. E il problema pare essere prettamente politico. Le stime aggregate cinesi (prendiamo ad esempio il GDP, equivalente anglosassone del nostro Pil) sono prodotte dal National Bureau of Statistics (NBS) cinese, utilizzando i dati parziali trasmessi dalle singole province. Il sistema di promozione politico interno al Partito Comunista Cinese prevede che i governatori abbiano degli obiettivi di crescita e di esportazioni da rispettare, in base alle quali dipende la loro carriera nel partito. Motivo per il quale i politici locali hanno degli incentivi a gonfiare i dati sulle performance economiche. Una situazione esacerbata dal fatto che gli uffici statistici regionali, seppure de jure appartenenti all’ufficio dello NBS, vengono finanziati dai governi regionali (per approfondire leggere l’articolo di Brookings). Il risultato è che l’economia cinese potrebbe essere il 12 percento più piccola rispetto a quanto annunciato dai dati ufficiali. Pare che a nessuno sembri interessare troppo, nemmeno ai temibili mercati finanziari che appaiono addormentati in un sonno letargico.
Inoltre, il mercato immobiliare cinese sta attraversando una bolla. Il rapporto tra salario annuo e costo medio delle case al momento è pari a 23. Un lavoratore medio lavorare 23 anni senza spendere nulla per essere in grado di comprare una casa. Per fornire un metro di paragone lo stesso rapporto a Tokyo e a New York è pari a 13. La politica monetaria espansiva effettuata dal governo cinese durante il crepuscolo della crisi del 2008 ha posto le condizioni per quella che potrebbe diventare presto una crisi del mercato edilizio, nonostante l’intervento del governo cinese sulle statistiche ufficiali. Se le congiunture economiche dovessero allinearsi l’effetto di un rapporto troppo alto tra salario e costo delle case potrebbe far precipitare il prezzo delle ultime, con effetti non dissimili da quelli che abbiamo visto nella crisi del 2008.
Il problema è che rimane il dubbio sulla veridicità dei dati che arrivano dalla Cina. L’influenza politica, e la volontà di nascondere delle debolezze strutturali o delle performance al di sotto dei target nazionali, potrebbero portare a un circolo vizioso di manipolazioni e alla creazione sistematica di “surrodati”: feticci statistici sottomessi alla volontà politica che nascondono una realtà ben diversa da quella che appare.
Potrebbe darsi che la Cina stia involontariamente attuando una politica scellerata e che le contraddizioni interne possano portare all’ennesimo fuoco fatuo asiatico. Ma rimane il dubbio che quello che stiamo vedendo, i cosiddetti surrodati, non siano altro che le ombre che il governo cinese sta proiettando nel mondo economico, in attesa del ritorno dell’esercito dalla campagna.