Mettiamo subito le mani avanti: il titolo di questo articolo non è un clickbait, ma volutamente provocatorio. E, soprattutto, non è un’iperbole o un modo per far scena con eventi di scarsa rilevanza: è un futuro decisamente probabile, è quello su cui stanno scommettendo le più importanti multinazionali.
Ma andiamo con ordine. Il passaggio che ci porta al mondo moderno è fondamentale per capire il mercato attuale: il mondo della distribuzione digitale si evolve dal floppy disk al CD-rom, poi DVD e Blu-Ray, fino allo store digitale.
Cos’è uno store digitale? La risposta semplice è che è un luogo in cui scaricare videogiochi in formato digitale, alcuni gratuiti, altri a pagamento, altri con modelli diversi – tenete a mente questa divisione, perchè tornerà ad essere estremamente rilevante. La risposta complessa è che si tratta di un modo di ottenere una licenza a discrezione del fornitore del servizio per utilizzare applicativi spesso legati a un sistema DRM più o meno invasivo e all’allacciamento a server online non necessariamente gestiti dal proprietario dello store stesso.
Facciamo un respiro e spieghiamo tutto.
Qual è il problema principale che deve risolvere uno store digitale? La pirateria. Se, come avevamo menzionato, la diffusione dei floppy disk permetteva di diffondere copie illegittime di un gioco in maniera estremamente facile, la digitalizzazione lo rende letteralmente tanto semplice quanto cliccare col mouse. Alcuni store ignorano completamente il problema, fidandosi degli utenti e fornendo file che l’acquirente potrà usare come preferisce – portabandiera di questo modello è Good Old Games, la cui ragione di vita è la redistribuzione di videogiochi degli anni passati, o itch.io che si occupa di giochi indie e amatoriali.
Altri invece richiedono che l’utente installi un programma che funga da “libreria digitale”. Usato dai maggiori store del momento (Steam, Origin ecc), questo modello viene venduto come un modo per rendere la vita del giocatore molto più comoda raccogliendo negozio e acquisti in un posto solo. In realtà si tratta di un tipo di DRM (digital rights management), un sistema che si assicura che ogni gioco/programma che stai usando sia una versione originale e non una copia, legale o illegale che sia.
E qui arriviamo al punto fondamentale dell’articolo. Quando acquisti un prodotto digitale, che sia un film, un album, un videogioco o un programma, non hai il possesso di questo prodotto. Quello che stai in realtà acquistando è una licenza per utilizzare il software in condizioni limitate, licenza che può essere revocata dalla persona che te la concede in certe condizioni – se non addirittura a piacimento.
Se hai provato ad acquistare Office o Photoshop negli ultimi anni, sai già quale sia stato il passaggio successivo. Se alla fine concediamo una licenza, hanno pensato certe aziende, perchè farla pagare solo una volta? Perchè non includere tra le clausole un pagamento continuo, concluso il quale non avrai più accesso a quello che vuoi usare?
Ecco il passaggio successivo: il servizio in abbonamento. Da Netflix alla suite Adobe, tutti quelli che possono passano da un solo acquisto costoso a un acquisto economico ogni mese – o, se riescono a farlo digerire agli utenti, a un acquisto costoso ogni mese. E i videogiochi non sono da meno: Microsoft e Sony flirtano con un modello ad abbonamento da anni, per quanto sia solitamente riservato a giochi già usciti da tempo. E tra sviluppatori e publisher si è ormai diffuso il modello dei games as a service, in cui un videogioco è visto come un servizio vero e proprio, aggiornato ed espanso in continuazione, e pagato o con una sottoscrizione o tramite l’acquisto di beni all’interno del gioco stesso.
Nessuno di questi modelli è in realtà legato al titolo di questo articolo; come avrete notato, si tratta di casi legati a condizioni particolari che giustificano la rimozione del singolo pagamento. Ma il mondo dei videogiochi sta cambiando, ed è appena arrivata una novità che ha scosso l’intero settore: Google Stadia.
L’azienda americana, che ormai controlla il mondo digitale, ha deciso di gettarsi nel campo dei videogiochi in prima persona. E lo ha fatto in un modo particolare: tramite un servizio di streaming vero e proprio, in cui il gioco stesso non lascia i server di Google ma di cui viene inviato solamente l’output video attraverso internet, che sia pagato un abbonamento o acquistato. Un’idea tanto ambiziosa quanto tecnicamente esigente, possibile solamente nell’era dell’internet diffuso e della fibra ottica. Un’idea che rimuove completamente l’idea di possesso e la sostituisce con quella dell’accesso, per un’azienda che intende diventare il più indispensabile possibile nelle nostre vite.
E che, soprattutto, non è l’unica: Amazon ha anch’essa sparso voci di un servizio di streaming, Microsoft sta già testando xCloud, e tutti i commentatori del settore possono sentire migliaia di capitalisti d’assalto fregarsi le mani per prepararsi a conquistare (e smantellare) un mercato da svariati miliardi.
Che fare? Per ora la risposta è “aspettare”. Per quanto preoccupante o intrigante possa sembrare il piano di queste multinazionali onnipotenti, il suo successo è ancora tutto da dimostrare. Le prime recensioni del servizio di Stadia sono quasi contraddittorie, un servizio rivoluzionario per alcuni e una ciofeca ingiocabile per altri, e una macchina mangia-internet per tutti dato l’enorme consumo di banda. Inoltre il servizio è partito senza molte delle feature promesse dal marketing, e con una qualità di immagine e grafica ben sotto al livello che Google aveva suggerito. Il pubblico sembra molto poco convinto, e la discussione sugli aspetti tecnici sembra più scettica che entusiasta.
Oltre ad aspettare, una delle certezze che sempre abbiamo avuto inizia a vacillare. Dovremmo iniziare a parlare di cosa significa “possesso” nel nuovo millennio.
Immagine di copertina: negozio della catena Gamestop © Wikimedia