a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto
L’estate del 2019 è stata dominata, sul piano mediatico, dall’impressionante aumento degli incendi nella foresta amazzonica, dove il ritmo della deforestazione è aumentato quest’anno del 50%. A destare preoccupazione in tutto il mondo è il ruolo che la foresta pluviale ricopre nell’assorbimento dell’anidride carbonica, principale responsabile del riscaldamento climatico. Tuttavia, il neo-presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha risposto duramente a chi lo accusa di distruggere il polmone verde del mondo, non lesinando colpi bassi e sostenendo che ad appiccare i roghi siano state le Organizzazioni non governative.
La posizione di Bolsonaro è perentoria: l’Amazzonia non è un patrimonio dell’umanità, e chi osa mettere in discussione ciò che il Brasile decide di fare del proprio territorio, lede la sovranità del Paese. Al di là delle posizioni che ciascuno può avere, la questione amazzonica fa emergere un problema assolutamente non banale, che costringe a ripensare a fondo la nostra concezione di bene pubblico.
Tradizionalmente, per la teoria economica un bene pubblico è dotato di due caratteristiche, opposte a quelle di un bene privato:
- non-rivalità: il consumo da parte di un soggetto non riduce la possibilità di consumo dello stesso bene per gli altri. Ad esempio, una volta che una strada o una piazza viene illuminata, il fatto che chi ci abita possa trarne beneficio non riduce la possibilità di goderne anche per chi è lì solo di passaggio.
- non-escludibilità: non è possibile, o è troppo costoso, impedire di consumare il bene a chi non ha pagato per produrlo. Pensiamo alla salute pubblica: una volta che sono stati presi i provvedimenti adeguati a prevenire un’epidemia, ne trarrà beneficio anche chi non ha fatto il minimo sforzo o non ha pagato nulla per evitare di ammalarsi.
Tornando a noi, la foresta amazzonica fornisce benefici di vario tipo a diverse categorie di soggetti: la regione è dimora di numerose comunità indigene, è ricca di risorse naturali (legname e minerali) sfruttate dalle industrie di tutto il Brasile e, come detto, riassorbe anidride carbonica a beneficio di tutto il mondo. Ma appurato ciò, chi tra questi soggetti ha più diritto degli altri di decidere come gestirla? E più in generale, come gestire problemi globali come la tutela dell’ambiente e la stabilità del clima?
Negli ultimi decenni, due filoni di studi hanno tentato di proporre soluzioni alternative alla stretta dicotomia pubblico-privato, o Stato-mercato. La prima si basa sul concetto di bene comune, la seconda su quello di bene pubblico globale.
Principale esponente della teoria dei Beni comuni (detti anche beni collettivi) è stata Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia nel 2009. Nel suo Governare i beni collettivi – Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità (1990), Ostrom ha analizzato come le comunità siano in grado di auto-organizzarsi per condividere risorse collettive, e ha definito otto principi in base a cui governare i beni comuni:
- chiara definizione dei confini (sia della risorsa collettiva sia di chi ha diritto di beneficiarne);
- coerenza tra le regole di appropriazione e fornitura e le condizioni locali;
- meccanismi di partecipazione collettiva alle decisioni;
- monitoraggio efficace;
- sanzioni per chi viola le regole;
- meccanismi semplici di risoluzione dei conflitti;
- autodeterminazione della comunità;
- infine, nel caso di risorse collettive di grandi dimensioni, un’organizzazione di diverse entità su più livelli.
Sui Beni pubblici globali ha invece concentrato il proprio lavoro Inge Kaul, ex direttrice dell’ufficio Human Development Reports del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Secondo questa teoria, i problemi di sicurezza, stabilità finanziaria, salute e protezione ambientale riguardano inevitabilmente qualunque paese, e perciò richiedono un’azione collettiva e un’autorità statale a livello globale.
Seppur entrambe nate per risolvere lo stesso problema, le due teorie propongono due visioni estremamente diverse del potere e del ruolo dello Stato in un mondo globalizzato: mentre per i sostenitori dei beni comuni sta alle comunità locali decidere come gestire le risorse collettive, per cui il potere va gestito prima di tutto dal basso, gli studiosi dei beni pubblici globali considerano necessaria l’imposizione di regole dall’alto per la tutela degli interessi dell’intera popolazione mondiale. Entrambe le visioni non sono esenti da critiche: se nel primo caso il rischio è un’eccessiva fragilità rispetto alle pressioni esterne, sia in termini di privatizzazione che di accentramento a livello Statale, nel secondo rischia di venire a mancare la legittimazione democratica nell’amministrazione del bene pubblico.
Fuori dalla teoria, è possibile immaginare un’Amazzonia che ritorna nelle mani delle comunità indigene che la abitano da secoli, o in alternativa sottoposta alla giurisdizione di un super-Stato globale? Una sola cosa sembra certa: nessuna delle due ipotesi potrebbe mai trovare il sostegno di Bolsonaro.
Per un approfondimento su Beni comuni e Beni pubblici globali, e le relative differenze in termini di visione del potere, si consiglia vivamente la lettura di Brando N. et al, Governing as commons or as public goods: two tales of power, da cui il presente articolo trae ampio spunto.