Il 29 novembre 2016 era un martedì. Le lacrime, inaspettate e forse non del tutto giustificate, sono il primo ricordo che ho di quel giorno.
Inaspettate perché tutto sommato, io, della Chapecoense nemmeno sapevo così tanto. Avevo sentito nominare la squadra per la prima volta qualche giorno prima: era notte, e la tv passava il ritorno della semifinale di Copa Sudamericana tra la Chapecoense, appunto, e il ben più noto San Lorenzo. Ricordo di essere stato colpito dal narrare intenso del telecronista, che provava a rendere a parole l’impresa ormai vicina di un club che prima del 2013 non aveva mai conosciuto la Serie A brasiliana nella propria storia e soltanto tre anni dopo stava per conquistare l’accesso alla prima finale internazionale.
Basta un breve sforzo per recuperare su YouTube diversi video dei secondi finali di quella gara giocata a Chapecó, una città da nemmeno 200.000 abitanti nello stato di Santa Catarina, centro-sud del Brasile. L’ultimo pallone buono della partita, prima del triplice fischio, viene giocato dal San Lorenzo. È una punizione sulla trequarti, che viene calciata bene, in mezzo all’area. In seguito a un rimpallo, la sfera rimane lì e permette a un argentino di calciare in torsione dal limite dell’area piccola. Il tiro è centrale, ma molto ravvicinato: anche a rivederlo in loop, è difficile capire come Danilo, il portiere della Chape, riesca a mettere il piede e fare rimbalzare la palla a centro area, prima che venga spazzata.
In uno dei filmati, la voce narrante è quella di Deva Pascovicci, telecronista di Fox Sports. Subito dopo la parata, il commentatore urla tre o quattro volte il nome del portiere e aggiunge in estasi:
«È STATO LO SPIRITO DI CONDÀ A SALVARLA! DANILO, LO SPIRITO DI CONDÀ ERA CON TE!».
Era il 24 novembre e quattro giorni dopo, il 28, Pascovicci era insieme a tutta la Chapecoense su quell’aereo diretto a Medellín, per la finale di Copa Sudamericana, che si schiantò contro una montagna a pochi chilometri dall’aeroporto.
Con quell’ultimo stralcio di telecronaca passato alla storia, Pascovicci richiamava la figura di Vitorino Condà, il leader della tribù Kaingang, una popolazione indigena che lottò a lungo per il proprio diritto di mantenere delle terre contese dai colonizzatori, che erano peraltro appoggiati dal governo brasiliano. Nonostante le immense difficoltà, la forza di volontà e la tradizione di questi indios erano talmente forti che ancora oggi i Kaingang, seppur in numero ridotto, abitano un piccolo villaggio alle porte di Chapecó, chiamato appunto Aldeia Condà.
La Chapecoense fu fondata soltanto nel 1973, ma il legame con il proprio territorio divenne evidente fin da subito. Dal 1980 il club terminò la costruzione dell’Estadio Regional Indio Condà, nominato proprio in onore di quel capo tribù che divenne negli anni anche la mascotte del club, nonché simbolo di pace e unione. L’unione era, soprattutto, quella tra la squadra e la gente di Chapecó, che aveva desiderato a lungo una squadra di calcio in grado di rappresentare la città e competere con i rivali della regione di Santa Catarina.
L’entusiasmo della comunità verso il club locale è il perno attorno al quale ruota la storia della Chapecoense. Fino agli inizi degli anni 2000, i risultati ottenuti sono stati altalenanti ma sempre con una costante: l’affetto mostrato dai tifosi ha fatto sì che i giocatori del Verdão si sentissero parte di una famiglia, identificandosi in quelle persone che in una città come Chapecó si potevano incontrare quasi tutti i giorni. È probabilmente da qui, ancor prima che dal campo, che nascono le imprese sportive della società, come il primo trionfo nel Campeonato Catarinense a quattro anni dalla fondazione o la generazione d’oro nata sotto la gestione del presidente Sandro Pallaoro che, sorretta da ben 11.000 soci su circa 200.000 abitanti, a partire dal 2009 riscrisse la storia della città. Fino al 28 novembre 2016.
È facile dunque capire perché, alla vigilia della finale di Copa Sudamericana contro l’Atlético Nacional, il clima in città fosse di «euforia totale», come racconta Fabio Schardong, giornalista di Radio Chapecó: «Non si parlava d’altro, tutti credevano nel titolo». Non potevano esistere limiti, d’altronde, per una squadra capace di passare dalla Serie D alla Serie A in cinque stagioni. L’unico limite lo pose il destino, in quella notte maledetta che spazzò via l’intero patrimonio della Chapecoense: presidente, dirigenti, allenatore e giocatori, salvo sei sopravvissuti, tre dei quali erano calciatori. A bordo del volo LaMia 2933, ufficialmente caduto per l’esaurimento del carburante, c’erano anche diversi giornalisti, tra cui Pascovicci e il fratello di Schardong, Fernando.
Dopo la notte trascorsa a narrare quelle ore tragiche alla radio, aperta da lui e dal figlio Felipe, Fabio spiega che la mattina del 29 novembre, quando la città si svegliò con la notizia dell’incidente, nonostante «una delle piogge più abbondanti mai viste a Chapecó» gli allagamenti di alcune aree cittadine «finirono in secondo piano».
A dover ripartire da zero dopo l’incidente non fu soltanto la Chapecoense, ma un’intera città. Ancora una volta, queste due identità si alimentarono a vicenda, poiché come spiega Schardong «il dolore fu accompagnato da tanta forza per ricostruire, non solo la squadra, ma le famiglie che avevano perso qualcuno». Con l’abbraccio della comunità che si fece ancor più stretto, la Chape ripartì da quelle cose solitamente date per scontate in una società di calcio: si trovò un nuovo presidente, Plínio David de Nes Filho, un nuovo allenatore e nuovi giocatori. A questi ultimi contribuirono le altre squadre brasiliane, che sull’onda di commozione che travolse il Paese, e non solo, prestarono molti calciatori alla Chapecoense, con tanto di stipendio pagato. Gli ultimi tasselli furono completati portando all’interno del club alcuni parenti delle vittime dell’incidente che non trovarono miglior modo di combattere il dolore che portavano dentro che riprendere a coltivare un sogno interrotto ingiustamente.
Così a inizio 2017, a poche settimane dalla tragedia, una nuova Chape era pronta a ripartire. La vittoria del campionato statale e l’ottavo posto in campionato furono l’ennesimo capitolo sorprendente di una storia che si confermava fedele alle proprie origini e ai valori tramandati da Vitorino Condà.
Gli aiuti economici, i prestiti, l’attenzione mediatica e quella commozione, che non potevano durare per sempre, posticiparono di fatto la sfida più grande per la Chape, ovvero «comportarsi come una società di calcio e non come un club che ha vissuto una tragedia», come spiega Thiago Rabelo di DAZN Brasil. Il 2017 illuse forse i dirigenti di poter ricostruire in fretta una squadra competitiva: così, con una rosa nuovamente azzerata si cercarono calciatori i cui contratti andavano in alcuni casi sopra le possibilità della società. Cominciò quindi una gestione diametralmente opposta a quella del vecchio presidente Sandro Pallaoro, che aveva costruito un gruppo passato alla storia basandosi su un’oculata pianificazione e privilegiando la scoperta di calciatori da formare in casa e, soprattutto, funzionali all’idea di collettivo del Verdão.
Le spese esagerate e i risultati poco confortanti hanno cominciato ad avvolgere la Chape in una spirale che, dopo le speranze del 2017 e la salvezza conquistata nel 2018, ha portato al finale forse più logico, scontato, doloroso.
Il 27 novembre 2019, poche ore prima che scoccassero i tre anni esatti dall’incidente, la Chapecoense è stata matematicamente retrocessa in Serie B brasiliana con tre giornate di anticipo. In seguito al disastro aereo, la federazione calcistica nazionale in accordo con le altre squadre aveva proposto al club di godere per tre stagioni di una speciale immunità che le avrebbe impedito di retrocedere. Al tempo, la società rifiutò questo aiuto poiché «non a proprio agio» e intenzionata a «conquistarsi la permanenza in Serie A sul campo». Forse la Chape aveva già capito che è impossibile sfuggire a un destino che oggi appare certamente crudele ma che, in accordo con le origini del club e la figura di Vitorino Condà, disegnerà sempre una strada per ripartire. Insieme alla propria gente.