a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto
Nel giro di una decina di giorni, l’ex-ILVA di Taranto è tornata un tema caldissimo: il colosso franco-indiano ArcelorMittal ha deciso di chiudere la più grande acciaieria d’Europa, un solo anno dopo averla comprata. Per evitare lo spegnimento degli altiforni, la Procura di Taranto ha aperto un fascicolo per distruzione di materie prime e mezzi di produzione con danno all’economia nazionale, ripescando una norma risalente al Codice Rocco del 1930. È persino tornato alla ribalta il grande classico delle imprese di Stato. Per un’analisi adeguata della questione è troppo presto: c’è ancora troppa polvere. Ma un discorso, alla radice del problema ILVA anche se più ampio, si può e si deve fare: è possibile conciliare la transizione energetica e ambientale con le politiche sociali? Esiste un trade-off fra le due? Lo Stato, in tutto questo, cosa deve fare?
Stiamo in sintesi parlando di politica industriale, termine sconosciuto ai più perché in Italia non se ne parla da decenni. Si tratta dell’insieme di misure che un Governo attua per incentivare e spingere alla crescita alcuni settori industriali. Attenzione: non è necessario un intervento diretto dello Stato, basta solamente che ci sia un indirizzo verso una meta comune. È chiaramente, quindi, una visione politica di medio-lungo periodo: gli investimenti richiedono tempo per essere progettati e realizzati, ci vuole tempo per formare le persone, eccetera eccetera.
Parlare di ILVA non vuol dire solo parlare del trade-off ambiente/lavoro. È anche (e soprattutto) il compromesso tra politica industriale e consenso elettorale: il consenso non guarda al di là del prossimo sondaggio, mentre la politica industriale guarda al ciclo degli investimenti (che nel migliore dei casi è pluriennale), presuppone un pensiero complesso e la capacità, addirittura, di cedere qualcosa sul breve periodo per ottenere ritorni maggiori nel lungo. Sul tema dell’ILVA non c’è mai stata una vera discussione di politica industriale. Da quando nel dicembre 2014 è tornata in mano allo Stato (e fa specie rileggere oggi la promessa del Governo di risanare e rivendere l’impianto in massimo 36 mesi) non ci si è mai chiesti: il settore dell’acciaio è strategico per il Paese? Ha senso, economicamente parlando, mantenere questa produzione in Italia? Se sì, come risanarla dal punto di vista ambientale? Se no, che fare di migliaia di lavoratori lasciati a casa?
La mancanza di una visione di politica industriale nazionale è venuta al pettine quando il Governo ha offerto un assist, incredibile per la scarsa lungimiranza, con la rimozione dello scudo penale. Essa ha offerto un ottimo pretesto ad ArcelorMittal per disinvestire in un affare che stava iniziando a rivelarsi poco redditizio, sia per la flessione globale del prezzo dell’acciaio, sia per l’italica commistione fra potere giudiziario ed esecutivo. In parole povere: ArcelorMittal non aveva interesse a investire quanto avrebbe dovuto per risanare l’area, ripensare il paradigma produttivo dell’acciaieria e riconvertire l’impianto. Ma era vincolata a farlo in virtù di un contratto. Il rimescolamento delle carte in tavola ha permesso ad ArcelorMittal di recedere dal contratto, salvando i proverbiali capra e cavoli e lasciando al Governo italiano il duro compito di evitare il licenziamento di diecimila persone e proseguire con il piano di bonifica, possibilmente evitando di metterci direttamente soldi.
L’ILVA è quindi il manifesto dell’incapacità italiana di programmare una politica industriale di medio/lungo periodo e dell’incapacità di affrontare problemi strutturali, occupandosi solamente dell’emergenza di turno. Nel vuoto della politica, come spesso accade in Italia, le responsabilità cadono in capo alla magistratura che, tra l’altro, si trova ad applicare un insieme di norme confuse e contraddittorie, che portano la magistratura di Taranto a far spegnere un altoforno e quella di Milano ad indagare per i danni causati dalla chiusura dell’altoforno.
(la risposta alla domanda “ma qual è il bottone per spegnere un altoforno?” la trovate qua. Spoiler: non c’è un bottone).
Una politica industriale lungimirante avrebbe dovuto pensare a come ridisegnare il tessuto produttivo tarantino, quali avrebbero dovuto essere i punti di forza e le leve su cui costruire un nuovo polo industriale, attrattivo ed ecosostenibile, e (soprattutto) avrebbe dovuto dare un orizzonte ai lavoratori: un programma di riqualificazione professionale, nuove competenze, strumenti per reinserirsi in una dinamica industriale inserita in un tessuto produttivo territoriale. Insomma, avrebbe dovuto disegnare il futuro di Taranto, non dell’ILVA.
Invece ci si è concentrati sul dito e si è ignorata la luna, arrivando alla situazione attuale.
La vicenda apre due problemi. Il primo è ormai oggetto di discussione quotidiana: chi mai verrà ad investire in Italia, sapendo che ad ogni tornata elettorale cambia il panorama di riferimento?
Il secondo, più sottotraccia, è ancora peggiore: come potrà l’Italia abbracciare un vero Green New Deal, che non si limiti a un po’ di soldi per piantare alberi, ma sia capace di ristrutturare il nostro sistema produttivo e portarlo alla completa decarbonificazione, se non riusciamo a farlo con un singolo stabilimento? Per affrontare l’emergenza climatica serve – tra le varie cose – un ripensamento radicale delle nostre modalità produttive, ma in Italia manca completamente una strategia di politica industriale e l’ILVA ne è manifesto. Dove possiamo andare?