Una nebbia densa e leggera occupa la scena. È vapore, che soffia veloce e incessante dai fori di una carbonaia. Sulla cima c’è un carbonaio calabrese, che doma il vapore con la pala, per portare avanti il processo di combustione. Ad ardere è legno: un vegetale che si farà minerale, carbone.
Parlare di Michelangelo Frammartino in una rubrica sul cinema documentario è complesso. A maggior ragione concentrando l’attenzione su Le quattro volte, l’opera che lo ha consacrato e gli ha dato una fama internazionale. Perché il paradosso è che l’opera di Frammartino è un film, non un documentario. Ma è anche un documentario e non un film. Alla fine, ci si rende conto che è qualcosa di più, che travalica entrambi.
Il cinema di Frammartino si colloca in uno spazio liminale tra fiction e documentario. Si potrebbe definire come un territorio tra costruzione e realtà che costruisce la realtà. Una realtà che cambia di stato e assume nuova forma e consistenza.
Le quattro volte parla proprio di cambi di stato: è il viaggio dall’uomo al minerale. Un racconto che parte dalla concretezza della vita e malattia di un pastore, per lasciare il posto all’animale, al vegetale, in un processo di progressiva rarefazione del racconto, dominato dal silenzio dell’immagine. Se nella parte del pastore si possono ritrovare elementi di fiction riconoscibili, man mano che il racconto prosegue il discrimine si fa sempre più labile. Come si può “dirigere” una capra o un albero? Il film allora attraversa a sua volta un passaggio, entra in un campo documentaristico portando con sé la “materia” narrativa. Così, un’idea apparentemente precostituita, curata nella messinscena, entra in dialogo con la realtà: il risultato è uno scambio che rende il reale ancora più reale. Come afferma lo stesso Frammartino: «Le quattro volte cerca di incoraggiare questo percorso di liberazione dello sguardo, sollecitando lo spettatore a trovare il nesso nascosto che anima tutto quel che ci circonda. […] Quando vedo un film, ho sempre la sensazione che sulla pellicola si fissi qualcosa che va molto al di là del soggetto ripreso, come se l’immagine fosse una forma di accesso all’invisibile, l’unica che ho saputo sperimentare fino ad ora».
Il dialogo tra finzione e reale diventa perciò un processo simbiotico che eleva a un livello superiore il mezzo, rendendolo traslucido, come se guardando in filigrana la realtà apparisse con una consapevolezza nuova. Non è un caso che Frammartino abbia deciso di girare il film su pellicola, «perché la pellicola è come un calco del reale».
Se la pellicola imprime, l’obiettivo della cinepresa è un vetro che registra e rielabora. Ma la rielaborazione non passa più dalla preminenza del montaggio; la modalità privilegiata per raccontare la realtà sarà il quadro. Come nel cinema documentario e di finzione dei Lumière e Méliès – un cinema che ancora non conosceva l’idea di inquadratura – Frammartino predilige campi lunghi e lunghissimi, statici e fissi, che lasciano spesso spazio ad altri quadri e vedute. Il racconto allora si svilupperà all’interno del quadro, perché lo spettatore, per afferrare la realtà, ha bisogno di posare il suo sguardo. L’occhio lavora all’interno dell’immagine, nei lunghi piani sequenza, in quanto lo sguardo necessita di tempo, attesa. Il cinema di Frammartino è un inno alla lentezza e alla contemplazione. Si prende il suo tempo perché il cinema, spesso, tiranneggiato dal ritmo e dalla scansione inquadratura/azione che comincia e si conclude/nuova inquadratura, impedisce a se stesso e allo spettatore un’elaborazione in profondità.
Citando una scena di Bu San – Goodbye Dragon Inn (di Tsai Ming-liang), Frammartino descrive proprio il cambio percettivo che ha cercato di trasmettere con Le Quattro Volte: «Si vede una donna claudicante che spazza il pavimento lentamente, fila dopo fila, e quindi esce di scena. Il piano rimane vuoto per dieci secondi, venti, trenta, un minuto. Ok, pensi, l’ha fatta un po’ lunga, ma ora taglia. Dopo un minuto e mezzo capisci che stai guardando qualcos’altro. Ed è folgorante».
Le quattro volte parte dall’uomo e via via si fa sempre più leggero, volatile e inafferrabile. Come lo sguardo dello spettatore, cambia di stato: per tornare umano, con una consapevolezza diversa.
Fonte immagine di copertina: quinlan.it