Patrice Nganang, poeta, saggista, giornalista e romanziere camerunese, parla e scrive in quattro linque: inglese, tedesco, francese, oltre al Medumba, sua lingua madre. A scuola ha studiato in francese e in tedesco, ora insegna all’università di New York, in inglese. Il suo primo lavoro è stato come professore di tedesco all’università della Pennsylvania. Gli studenti trovavano divertente imparare il tedesco da un camerunese, un uomo di colore la cui prima lingua era il francese. La storia di Patrice Nganang è la storia del Camerun e dei suoi passati coloniali.
A metà dell’Ottocento il Camerun era una colonia tedesca. Nel 1919, con la fine della Prima Guerra Mondiale, Inghilterra e Francia si spartirono i territori coloniali della Germania sconfitta e il Camerun venne diviso in due parti: una francese, più ampia, con capitale Yaoundé, e una inglese, molto più ridotta. Nel 1960 la Francia rinunciò alle proprie pretese su quei territori e venne dichiarata la nuova indipendente Repubblica del Camerun, cui nel 1961 si riunì la parte meridionale del Camerun britannico. L’area centro-settentrionale, a maggioranza musulmana, optò invece per l’annessione alla Nigeria (a cui il Regno Unito concesse l’indipendenza nel 1960). “Concedere l’indipendenza” è un’espressione che stride nell’universo dell’Occidente democratico. Tant’è però. Così è andata, in barba al diritto di autodeterminazione dei popoli. “Historia magistra vitae” sembra valere solo a certe latitudini.
In Camerun oggi c’è una guerra tra la parte di popolazione che parla inglese, minoranza discriminata ed emarginata, e la parte di popolazione che parla francese e che governa il paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il conflitto è cominciato nell’ottobre del 2016 quando gruppi di insegnanti e avvocati di lingua inglese sono scesi in piazza contro il dominio francofono. Chiedevano il rispetto dei diritti delle minoranze, la tutela dell’insegnamento dell’inglese e lamentavano scarse opportunità di ricoprire posizioni pubbliche a causa delle barriere linguistiche. Il governo di Paul Biya rispose con la forza, in breve tempo la situazione degenerò, in un escalation di violenza sfociata in una guerra civile.
Oggi in Camerun il francese e l’inglese non sono solo lingue, sono diventate nuove identità etniche. Quando si parla di conflitti etnici in Africa capita di immaginare guerre tribali, conflitti arcaici e viscerali che seguono oscure logiche di appartenenza di sangue e che affondano le loro origini in un passato remoto, a-storico. Tutto molto poco ragionevole per noi occidentali. Ma, come per altri paesi dell’Africa, la storia del Camerun è stata plasmata dai poteri coloniali. A cominciare dal nome dello stato che deriva dal portoghese camarões, gamberetti: un ispirato esploratore, che nel 1472 trovò – appunto – molti gamberetti alla foce del fiume Wouri, così battezzò quella zona. Il Camerun è uno degli stati africani che presenta la più grande varietà linguistica, con più di duecento idiomi. Inglese e francese sono le lingue ufficiali che derivano dal passato coloniale, ma sotto il cappello francofono o anglofono troviamo decine e decine di gruppi etnici diversi. Le lingue africane esistono e vengono parlate, perché restare legati alle identità coloniali? Patrice Nganang sostiene che non si può capire cosa sta succedendo in Camerun senza risalire al 1919, quando i tedeschi persero la guerra.
Patrice Nganang nasce nel 1970 a Yaoundè, è docente universitario a New York e attivista politico. Si definisce francofono di nascita ma anglofono per protesta, nel 2017 è stato incarcerato nel suo paese d’origine perché critico nei confronti del regime del dittatore Paul Biya, che dal 1982 governa il Paese. Privato dei diritti civili in patria, è oggi costretto all’esilio. E’ autore di una trilogia, una grande epopea, tre romanzi storici che raccontano la misconosciuta storia recente del Camerun: il primo, Mont Plaisant, ci parla della cultura pre-coloniale, della colonizzazione tedesca e della Grande guerra, evento epocale che ha dato forma al mondo africano; La stagione delle prugne è dedicato a quella parte della Seconda Guerra Mondiale che si è svolta in Africa; con l’ultimo romanzo, Le impronte del granchio, arriva alla guerra civile tra 1960 e 1970.
La stagione delle prugne è il momento centrale della parabola: racconta come il Camerun sia stato coinvolto nella Seconda Guerra Mondiale. Il giovane letterato Pouka, dopo essere stato iniziato alla cultura francese nelle scuole della capitale, fa ritorno a Édéa, suo villaggio natale, con luminosi progetti avanguardistici: vuole fondare un cenacolo poetico per portare il verso alessandrino tra la sua gente. E’ il 1940: la Germania sta vincendo la guerra, la Francia è divisa in due dall’occupazione nazista, governa il collaborazionista filotedesco Philippe Pétain, mentre il generale Charles De Gaulle è fuggito in Inghilterra da dove coordina la resistenza. Il villaggio di Édéa è lontanissimo da tutto questo e le sorti dell’Europa sono solo chiacchiere da bar. Il saggio M’bangue continua a fare un sogno: vede Hitler che si suicida, ma ovviamente nessuno gli dà retta. Fino al giorno in cui si presenta al villaggio il colonnello Philippe Leclerc, con fermo mandato del generale De Gaulle di formare un esercito che combatta per liberare la Francia. Gli aspiranti poeti di Edéa son costretti a improvvisarsi soldati e a marciare verso il deserto insieme ad altre reclute di altri villaggi, di altre lingue, di altre nazioni, ma tutte africane. Senza attrezzatura, senza aver mai visto il deserto, senza – in alcuni casi – aver mai visto un bianco, affrontano le potenze dell’asse nelle sanguinose battaglie di Kufra e di Murzur, dove combattono e muoiono per la Francia e perché De Gaulle acquisisse credito presso gli inglesi. Chi ci parla è un narratore senza nome, che è voce e commento di un popolo intero, in un modello che rimanda alla tradizione orale e che vuole sfidare la narrazione euro-centrica della storia del colonialismo.
Siamo abituati a raccontare la Storia dal punto di vista occidentale. Per gli Europei De Gaulle è stato un liberatore, il leader della Resistenza contro il Nazismo, mentre per il Camerun è stato un subdolo colonizzatore che ha mandato al massacro decine di migliaia di camerunesi. Le colonie africane avevano già versato un tanto notevole quanto insensato tributo di sangue combattendo per la Francia nella Prima Guerra Mondiale; nella Seconda Guerra Mondiale dettero di nuovo un contributo determinante non solo sul fronte africano: parteciparono alla Resistenza francese e allo sbarco in Provenza. Tuttavia non vediamo soldati di colore sfilare sotto l’Arco di Trionfo nella Parigi liberata del 1944: non appena il generale De Gaulle fu sicuro di avere la vittoria in tasca, li rispedì in Africa, perché non si pensasse che la Francia era stata liberata dai negri.
La storia dell’Europa è intrecciata a doppio filo con la storia del resto del mondo. Per il resto del mondo questo fatto è molto chiaro, per noi un po’ meno. L’Africa invece non ha ancora recuperato la sua storia, continua a vedersi con le lenti dell’Occidente. “L ‘Europa ha detto che l’Africa era tribale e gli africani l’hanno accettato. Il ruolo dello scrittore- dice Nganang in un’intervista al Sole24ore – è mettere la gente nella storia. Mostrare che quello che fanno ha radici storiche, dargli coraggio perché affrontino la storia e cambino il loro futuro.”
I due amici Um Nyobè e Pouka, a guerra conclusa, discutono su ciò che è stato. Pouka dice che è necessario «riconoscere la Francia che ci portiamo dentro». «Perché la Francia non riconosce noi? – risponde Um Nyobè – Guarda come si comportano. Arrivano radunano cento, mille fratelli come se niente fosse, senza la minima responsabilità. Ignorano le loro stesse leggi: liberté, egalité, fraternité…e intanto schiacciano i coglioni a chi vogliono loro. Perché combatte la Francia? In difesa dei valori universali? Se sono tanto universali perché non li rispettano in Camerun? La verità è che nel cortile di casa loro, i francesi sono selvaggi». Pouka rilancia: «Non basta risposarsi per tornare vergini. Una volta colonizzati non c’è più modo di liberarsi dell’Occidente. L’Occidente ci ha occupato il futuro».