a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto

Il Collins Dictionary ha assegnato a Climate strike (sciopero per il clima) il titolo di Parola dell’anno 2019, vista la diffusione nelle piazze di tutto il mondo delle manifestazioni iniziate con gli Skolstrejk för klimatet di Greta Thunberg. Un altro termine che non avrebbe certo sfigurato in questa competizione avrebbe potuto essere Green New Deal.

Anche se nessun dizionario ne dà ancora una definizione ufficiale, possiamo intenderlo come un progetto di modifica radicale della nostra economia, in nome della sostenibilità ambientale e di una maggiore giustizia sociale, ispirato al New Deal con cui Franklin Delano Roosevelt pose fine alla Grande Depressione negli anni ’30 del secolo scorso.

Roosevelt durante la campagna elettorale del 1932 – Wikimedia Commons

Va detto che non esiste un unico Green New Deal: se il primo utilizzo del termine risale al 2007, oggi è tornato sulla bocca di politici di schieramenti diversi, ciascuno dei quali presenta la propria versione.

Il report A Green New Deal, redatto da un gruppo di giornalisti, economisti, attivisti e politici britannici agli albori della Grande Recessione, individua tre crisi simultanee:

  • finanziaria, a seguito delle deregolamentazioni del trentennio precedente e della conseguente bolla creditizia, il cui scoppio ha causato recessione, disoccupazione e aumento delle disuguaglianze.
  • climatica, legata al riscaldamento globale innescato dalle emissioni di CO2.
  • energetica, data l’esauribilità delle fonti fossili.

Per contrastarle, vengono inserite in un disegno coerente diverse azioni politiche: regolamentazione del settore finanziario, per asservirlo alle esigenze della produzione e della riconversione energetica; limitazione della libertà di movimento internazionale dei capitali, sull’esempio del sistema di Bretton Woods in vigore dal 1944 al 1971; lotta ai paradisi fiscali e riforma della tassazione sulle imprese; cancellazione di gran parte dei debiti generati a cavallo della crisi; massicci investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica e infrastrutture; ricorso a prestiti agevolati, sussidi e tasse per accelerare la decarbonizzazione; formazione di un esercito di lavoratori (Carbon army) a tutti i livelli di qualifica per attuare la trasformazione riducendo la disoccupazione; cooperazione internazionale per allineare all’obiettivo tutte le economie – da quelle avanzate a quelle meno sviluppate.

Per evitare che un piano così elaborato appaia sin da subito irrealizzabile, il documento riporta due esempi passati in cui la minaccia del collasso ha portato a trasformazioni economiche profonde:

  • le politiche intraprese dal Regno Unito durante la Seconda guerra mondiale: riduzione e redistribuzione dei consumi, aumento del risparmio, razionamento delle fonti di energia e mobilitazione di tutta la forza lavoro – donne incluse.
  • la rapida riconversione della produzione avvenuta a Cuba dopo il crollo dell’Urss: ampiamente dipendente dalle importazioni sovietiche, in particolare di petrolio, l’isola è diventata in pochi anni più autosufficiente dal punto di vista alimentare ed energetico, visto il perdurare dell’embargo imposto dagli Stati Uniti.

A dieci anni di distanza, pur essendo stati firmati gli Accordi di Parigi nel 2015 e pur venendo continuamente rinviata la data in cui è previsto l’esaurimento delle fonti fossili, i problemi posti dalle tre crisi sono ancora lontani dall’essere risolti. Per questo, da più parti, si è tornato a parlare di Green New Deal.

Bernie Sanders – Wikimedia Commons

Negli Stati Uniti, è cavallo di battaglia dell’ala sinistra del Partito Democratico: la giovane deputata Alexandria Ocasio Cortez ha presentato a febbraio la Risoluzione 109, «che riconosce il dovere del Governo Federale di creare un Green New Deal», la cui discussione è stata però respinta dal Senato con 57 contrari e 0 favorevoli (gli stessi compagni di partito della Ocasio Cortez si sono astenuti). Anche Bernie Sanders lo ha inserito nel suo programma per le primarie Dem del 2020.

Dall’altro lato dell’Atlantico, sono stati presentati con lo stesso nome i programmi di due gruppi distinti: quello di Climaeuropa vede tra i firmatari Nicola Zingaretti e altri esponenti del centrosinistra italiano, mentre quello di Green New Deal for Europe è stato parte del programma elettorale di DiEM25, movimento fondato dall’economista ed ex ministro greco Yanis Varoufakis, alle ultime elezioni europee.

Un po’ a sorpresa, anche la neoeletta presidente della Commissione Europea, la centrista Ursula von der Leyen, ha messo come primo capitolo del proprio programma un Green Deal per l’Europa. Togliendo ogni riferimento alla regolamentazione della finanza, la tedesca pone come obiettivo per l’Europa di diventare il primo continente climate-neutral, attraverso un’estensione dell’ETS, l’introduzione di dazi sulle importazioni ad alto impatto ambientale, un aumento dei fondi stanziati dalla Banca europea degli investimenti e la promozione dell’economia circolare.

Ursula von der Leyen

Se in America il principale ostacolo a un Green New Deal è rappresentato dalla netta opposizione dei repubblicani, che in esso vedono una pericolosa deriva socialista e in alcuni casi arrivano a strizzare l’occhio ai negazionisti del riscaldamento globale, in Europa i problemi sono essenzialmente due: l’esiguo budget a disposizione della Commissione (solo l’1% del Pil europeo) e la difficoltà tipica delle istituzioni Ue di trovare un compromesso che vada bene a 28 paesi. D’altronde la stessa von der Leyen, pur eletta dal Parlamento europeo a luglio, non è ancora riuscita a raggiungere un accordo per la sua squadra di governo.

Cosa si realizzerà nel concreto di questi piani non è ancora dato sapere, anche se risulta evidente ogni giorno di più la necessità di una maggiore mobilitazione internazionale per affrontare l’emergenza climatica. Per fortuna, la storia ci insegna che a volte anche i peggiori nemici possono unire le forze per raggiungere un obiettivo comune.