A cura di Federico Di Matteo, Diego Begnozzi e Andrea Sciotto
Giorgio è il proprietario di un bar, con un pergolato e i tavolini fuori. Quando c’è la bella stagione è proprio piacevole sedersi all’ombra del glicine, bere caffè freddo e chiacchierare. Gli affari di Giorgio vanno molto bene. Un giorno il negozio di fianco al bar di Giorgio chiude e arriva Paolo, che apre una pescheria. Ora prendere il caffè sotto il pergolato del bar di Giorgio è un po’ meno bello – c’è un odore di pesce piuttosto forte che non è sempre il massimo.
L’attività di Paolo genera un’esternalità negativa con delle ricadute su un altro soggetto. Un’esternalità è un impatto generato da un’attività economica (come aprire una pescheria) ma non si inserisce in una dinamica di mercato: non ha prezzo e non prevede uno scambio monetario.
Ovviamente esistono anche esternalità positive: se al posto di una pescheria Paolo avesse aperto una galleria d’arte, ad esempio, i visitatori della galleria magari sarebbero andati a prendere il caffè da Giorgio. L’interesse, tuttavia, risiede nelle esternalità negative: sono uno dei cosiddetti fallimenti di mercato, ovvero una situazione in cui le parti non riescono ad accordarsi perché gli interessi sono contrapposti.
Le esternalità negative sono il tema più importante del XXI secolo. Davvero? Davvero. L’emissione di inquinanti è un’esternalità negativa: ad esempio un’impresa manifatturiera, nella sua attività economica, genera agenti inquinanti che influenzano negativamente una platea di altri soggetti.
Come si può gestire un’esternalità? La teoria economica ha elaborato due filoni di soluzioni, ognuna delle quali presenta vantaggi e svantaggi.
Secondo Arthur Cecil Pigou un’esternalità è affrontabile tramite l’imposizione di un’imposta specifica (detta imposta pigouviana) a carico di chi genera l’esternalità [1], di valore pari al danno prodotto. Il ricavato viene poi distribuito a coloro che subiscono l’esternalità.
In teoria, tale imposta dovrebbe spingere chi genera l’esternalità a ridurre parzialmente la sua attività economica e contemporaneamente risarcire parzialmente chi la subisce. Non a caso abbiamo usato “parzialmente”: il livello di equilibrio è una via di mezzo fra l’assenza di esternalità (e quindi l’assenza di attività economica da parte di un soggetto) e la massimizzazione dell’attività economica dell’emittente.
Un’altra scuola di pensiero è quella di Coase, che sostiene che il problema delle esternalità nasca dall’assenza di un mercato. Una volta che si è stabilito un diritto ad emettere esternalità e gli si è assegnato un costo, sarà la contrattazione fra le parti a portare la situazione in equilibrio.
Entrambe le teorie presentano alcuni punti critici. Ne sottolineo alcuni:
- Come si fa a stabilire il valore dell’esternalità? Nel caso di Paolo e Giorgio magari possiamo valutarlo come i caffè in meno venduti al bar, ma quando si parla di emissioni inquinanti diventa piuttosto complicato assegnare un valore monetario
- Come si fa a stabilire chi è il soggetto passivo – ovvero chi subisce l’esternalità? Nell’esempio di prima è Giorgio, ma se l’emissione di CO2 impatta sul clima mondiale ci sono sette miliardi di soggetti passivi?
- Soprattutto per il caso di Coase, come si fa a stabilire dove sta il diritto? È Paolo che ha diritto a vendere pesce (e quindi è Giorgio che lo deve pagare per non farlo) o è Giorgio che ha diritto all’aria pulita (e quindi è Paolo che deve pagare per poterlo fare)?
Tutte queste domande emergono prepotentemente quando si parla di inquinamento. In Europa, infatti, per gestire le esternalità derivanti dalle emissioni inquinanti è stato istituito nel 2005 l’European Union Emission Trading Scheme (ETS), un mercato di scambio dei permessi ad inquinare.
Funziona così: ogni Paese UE stabilisce un tetto massimo alle emissioni e immette sul mercato un certo numero di permessi, la maggioranza dei quali sono assegnati con un meccanismo misto (una parte assegnata direttamente alle imprese, una parte assegnata tramite aste). Una volta che tutti i permessi sono stati assegnati, le imprese hanno la possibilità di venderli, creando un vero e proprio mercato. Sforare il tetto, ovviamente, comporta delle sanzioni.
L’ETS è stato implementato in tre fasi: 2005-2007, 2008-2012, 2013-2020. Al termine di ogni fase è stato ridiscusso il tetto massimo di emissioni, la tipologia di emissioni inquinanti considerate (nella terza fase sono stati inclusi ossido di diazoto e fluorocarburi), settori soggetti ai limiti di emissioni (nella terza fase è stato incluso il settore dei trasporti aerei) e il meccanismo di assegnazione dei permessi (incrementando la quota assegnata tramite asta).
L’obiettivo, nel tempo, è la riduzione del tetto massimo di permessi, fino ad arrivare nel 2030 ad una riduzione del 43% rispetto al totale del 2005.
Si tratta quindi di un sistema misto rispetto ai due meccanismi di gestione delle esternalità discusse precedentemente (mercato alla Coase e tassa pigouviana). Come in Coase, viene costituito un mercato delle esternalità; come in Pigou vengono tassate le esternalità. A differenza dei due modelli presentati precedentemente, però, in questo caso la remunerazione dell’esternalità non finisce in mano ai soggetti passivi (cioè i cittadini), ma allo Stato, che dovrebbe utilizzare questi fondi per sostenere politiche di decarbonizzazione e altri interventi a favore di un’economia più sostenibile[2]. La cosa ha anche un certo senso: è materialmente impossibile stabilire in che proporzione ognuno è danneggiato dalle emissioni inquinanti, ed è estremamente impratico accreditare la quota individuale sui singoli conti correnti. Nel 2018 l’Italia ha collocato 93 milioni di permessi, con proventi per oltre 1,4 miliardi di euro: sono circa 23 Euro a testa.
Il cuore dell’ETS – e la radice di tutti i problemi – risiede nella difficoltà di stabilire il prezzo dell’esternalità, analogamente a quanto dicevamo sopra per Paolo e Giorgio.
In questo caso il problema ha due
aspetti: il primo è quanti permessi devono essere assegnati – e questo numero
influenzerà la quantità -, il secondo è come punire le imprese che non
rispettano i limiti. Se si assegnano troppi permessi, il prezzo crolla e le imprese molto inquinanti non hanno nessun incentivo ad investire per migliorare la tecnologia e abbattere le emissioni: razzolano tutti i permessi che trovano, a basso costo, e vanno avanti per la loro strada.
Se la multa per il superamento del limite è troppo bassa, le imprese inquinanti se ne fregano e investono una parte dei proventi delle vendite realizzate sforando le emissioni permesse per pagare la multa.
Vale ovviamente anche il discorso inverso: un limite troppo basso fa gonfiare i prezzi, e fa uscire dal mercato anche quelle imprese solo moderatamente inquinanti. “Uscire dal mercato” è gergo tecnico per dire fallimenti, licenziamenti e disoccupazione.
D’altra parte, un sistema pubblico di controllo delle emissioni è indispensabile, dal momento che il mercato, autonomamente, non è in grado di risolvere il problema. Il meccanismo degli ETS si è dimostrato non pienamente efficace: la fase 3 ha portato ad una riduzione delle emissioni pari all’8%. Sempre meglio che un calcio nei denti, eh, ma questa riduzione è frutto non solo di miglioramenti tecnologici, ma anche di delocalizzazione in altri Paesi e chiusura di imprese (ad esempio pensate a quello che sta succedendo sul mercato dell’auto!). Quindi si tratta di una riduzione spuria, perché non calcolata a parità di perimetro.
Inoltre, il sistema così pensato crea una distinzione fra imprese nuove e vecchie imprese inquinanti: l’equilibrio di medio periodo prevede la concentrazione dei permessi nelle mani dei vecchi impianti produttivi, perché tanto a quelli nuovi non servono.
Insomma, la strada per definire l’ottimale intervento pubblico è ancora da percorrere. Trovarla è fondamentale: in assenza di un sistema pubblico efficace, il percorso verso la decarbonizzazione dell’economia è molto in salita.
[1] Stiamo affrontando il caso di esternalità negativa, cioè che provoca un danno. In caso di esternalità positiva il discorso rimane uguale, a parti invertite.
[2] Almeno la metà dei proventi delle aste di quote per gli impianti fissi – e tutti i ricavi delle aste di quote per gli operatori aerei – deve essere utilizzata dagli Stati membri in azioni volte a combattere il cambiamento climatico.