Carlo Goldoni nasce il 25 febbraio del 1707 a Venezia, muore nel 1793 a Parigi: due osservatori privilegiati per testimoniare il Secolo dei Lumi. Probabilmente il più grande drammaturgo italiano di tutti i tempi, dimostra già in questo il suo esser contemporaneo: vede il suo primo contratto con relativo stipendio a quarant’anni.
Di modesta cultura, non nasce come intellettuale, farà per molti anni l’avvocato prima di riuscire a guadagnarsi da vivere scrivendo commedie. Il mondo del teatro lo seduce che è ancora ragazzo. Seduzione è la parola che usa nelle Memorie e non è una metafora: ama il mondo degli attori, subisce il fascino delle attrici e di uno stile di vita avventuroso. Soprattutto, a teatro si diverte. Scrive moltissime commedie, alcune geniali, molte mediocri, si barcamena tra necessità di piacere al pubblico, impegni contrattuali, tempi strettissimi e desiderio di cambiare il modo di far teatro nel suo tempo, sclerotizzato sulle forme, ormai banalizzate e non più vitali, della cinquecentesca Commedia dell’Arte. Si propone di riformare il linguaggio teatrale pulendolo da gesti sregolati e intrecci improbabili, ispirandosi invece ai principi di razionalità e verosimiglianza. Voleva che la gente andando a teatro potesse riconoscere qualcosa della vita reale, che si rispecchiasse nei personaggi, traendone un qualche insegnamento. Ma Goldoni tutto è tranne che un moralista: se fa emergere una preoccupazione didattica nei finali di commedia (quando la vicenda deve trovare una prospettiva rasserenante) assai più forte sembra la sua curiosità verso il mondo, che lo porterà a esiti ben più grandi di quelli dichiarati.
La sua Riforma è un processo che matura lentamente, non è frutto di una teorizzazione ma di una pratica: evolve nello spazio teatrale e sociale dell’epoca e con esso si misura. Venezia nel Settecento è l’affascinante laboratorio di una nuova società. A un inesorabile declino politico, che culminerà con la resa a Napoleone Bonaparte il 12 maggio del 1797 e la fine della millenaria Serenissima Repubblica, si contrappone un periodo di eccezionale splendore sul piano culturale e l’affermazione di Venezia come capitale internazionale dello spettacolo e del divertimento.
Goldoni scrive all’alba del capitalismo: la sua Riforma comincia aggiornando i tipi umani delle commedie, ma arriva a parlarci di ambienti, abitudini sociali, rapporti familiari, che descrivono un nuovo mondo e nuove relazioni socioeconomiche. Nelle prime opere Goldoni identifica nella figura del buon mercante onesto il meglio di quanto abbia prodotto la sua società contemporanea. Recupera il Pantalone dei canovacci di Commedia dell’Arte e gli dà nuova vita, lo rende simbolo dei valori positivi della buona borghesia: è operoso, equilibrato, onesto, ragionevole, si contrappone all’aristocratico inetto, vizioso e indifferente al bene comune. Ma dagli anni ’50 del Settecento la borghesia mercantile è clamorosamente in crisi, economicamente e culturalmente: il commercio si è atrofizzato, gli affari sono ripiegati in ambito locale. Si delinea una società che non trova slancio per progettare un futuro.
Le commedie di Goldoni non dipingono una bella umanità. Dietro la decantata onestà (che comunque non è valore morale in sé, ma necessario ad avere credibilità come mercanti, quindi strumentale al guadagno) si nasconde un perbenismo formale e gretto, un’incapacità di compassione e una paranoica ossessione conformista. Inquietanti sono i rapporti familiari. Un quadro fra tutti da La famiglia dell’antiquario scritta nel 1750, ancora non dei più disperati: il conte Anselmo, nobile senza merito, con la fissazione per la moda dell’antiquariato, spende un sacco di soldi per delle patacche che l’astuto Brighella gli fa credere essere beni di pregio; la moglie, sul punto di diventare nonna, si crede ancora una ragazzina: spende e spande per l’abbigliamento e le cure del (ormai decadente) corpo, flirta con un improbabile gigolò che vive pianta stabile sotto lo stesso tetto del marito; il figlio Giacinto, imbranatissimo, succube della madre, cerca conforto dal padre che, preso com’è dalle sue anticaglie e dalla smania di apparire, lo liquida con insofferenza; la nuora Doralice viene fatta vivere in estrema modestia, confinata in casa perché non ha vestiti decenti per uscire, se ne lamenta e per far valere i suoi diritti fa pesare i soldi che ha portato in dote. I soldi della dote, che spetterebbero alla giovane coppia, vengono spesi dai suoceri senza criterio. Tutti parlano sempre e solo di soldi.
Negli anni della sua produzione, i rapporti familiari si fanno sempre più foschi: figlie praticamente vendute per risanare l’economia domestica; coppie di innamorati narcisisti, nevrotici, per nulla empatici; matrigne complici della segregazione delle figliastre. Goldoni scopre un mondo meschino e volgare, dove sembra che nessuno si voglia bene. Mostra degli analfabeti emotivi, persone che non hanno imparato ad amare, impreparate al sentimento, in una società che ha estirpato l’amore, l’idealità, la bellezza. Nessuno è cattivo, sembrano solo assurdamente incapaci. Fuor di commedia, se prese sul serio sono situazioni veramente drammatiche.
Goldoni non giudica, non si sbilancia mai in affermazioni categoriche, non fa vaticini sulle sorti del mondo. Ritrae queste anime spaccate con tratti comportamentali che rivelano tic e nevrosi moderne, se non proprio contemporanee. Giacinta, meravigliosa protagonista de La Trilogia della Villeggiatura, cerca di togliersi dalla testa un amore sbagliato con una sorta di training autogeno imparato da un libro di auto-aiuto. Ne La Bottega del caffè, Eugenio, dopo aver passato tutta la notte a giocare d’azzardo, continua confusamente a ordinare caffè, per poi rifiutarlo appena arriva, per poi chiederne subito un altro; si mostra pentito alla moglie e subito dopo fa delle avances spinte a una ballerina, tutto nel giro di pochi minuti. Sono personaggi che non controllano più la logica dei loro comportamenti.
La Bottega del caffè è stata riscritta nel 1969 dal regista e drammaturgo tedesco Rainer Werner Fassbinder, mantenendo identica la struttura del testo. Il traduttore dell’edizione italiana avvisa che questa rilettura è guidata dalla convinzione che “i rapporti all’interno di un gruppo siano fondati sullo sfruttamento e sull’oppressione, sul sadismo e sul masochismo. Che gli uomini dipendono gli uni dagli altri e strumentalizzano tale condizione di dipendenza. Che si può comprare ogni cosa perché chi ha i soldi si può permettere tutto.” Ovviamente Carlo Goldoni era lontano anni luce dall’esprimere tali considerazioni. Tuttavia, i sottotesti che Fassbinder apre si trovano già in potenza nel testo originale.
Non è giusto spingere le intenzioni del drammaturgo più in là di quanto potesse lui stesso vedere. Quando Goldoni comincia a scrivere non sa dove lo porterà l’avventura del teatro. Ma le sue commedie, lette oggi alla luce della crisi permanente, ora che quel modello socioeconomico si è mostrato già da decenni esausto, ci danno ancora materiale per lavorare.