C’è simmetria in The Wall, il disco procede con un ordine logico, un climax che inizialmente ci immerge nella decisione di Pink di chiudere ogni contatto con il mondo.
Nella seconda parte dell’LP il nostro eroe tenta di uscire dalla sua solitudine, cercando di abbattere il muro: un processo psicologico che comporta diverse tappe.
La redenzione è infatti un percorso altalenante, assimilabile alla riabilitazione di un tossicodipendente. Il protagonista procede a tentoni nel buio della sua cella di isolamento alternando richieste di aiuto, sogni deliranti e condanna delle sue azioni.
Pare essere passata un’eternità da quando lo abbiamo abbandonato in un’anonima stanza d’hotel. Adesso lo ritroviamo tra gli accordi di Hey you. Rivolgersi a qualcuno chiedendo aiuto rappresenta il primo tentativo di evasione; ma il muro è ancora troppo alto e il cervello di Pink è preda dei vermi (and the worms ate into his brain).
La soluzione è lì, a portata, ma è distante; riecheggia nell’ultima strofa della canzone come in una enorme valle oscura: «Together we stand, divided we fall.»
La fievole speranza lascia spazio all’atmosfera lugubre di Is there anybody out there, traccia che rimarca la spaventosa solitudine che avvolge il protagonista.
In Nobody home Pink riflette sulla quotidianità, dove la dipendenza dall’eroina, le bruciature di sigaretta e i tredici merdosi canali che gli offre la TV sono le poche e inutili soddisfazioni che questa condizione gli riserva.
Il titolo cela peraltro un indizio autobiografico riferibile a un personaggio fondamentale per la band: Syd Barret, primo chitarrista dei Pink Floyd, figura leggendaria, celebre per la sua smisurata creatività, il suo stato mentale deviato e la sua dipendenza dalle droghe. In un’intervista a Joe Boyd, produttore discografico, viene descritto così: «mi guardava negli occhi e nel suo sguardo non c’era un singolo battito di ciglia o un accenno di vitalità: come se non ci fosse nessuno in casa.»
Le richieste di aiuto di Pink e la presa di coscienza dello squallore della situazione presente sono solo il primo passo: serve però la totale volontà di intraprendere la strada che lo conduca fuori dalla spirale dell’isolamento: ma il momento non è ancora arrivato.
Ascoltando il finale di Bring the boys back home un turbinio di suoni evocano il passato del protagonista e della prima parte dell’album.
Il presente sta pian piano riaffiorando, ma la confusione è troppa.
Pink, ancora troppo debole per intraprendere il passo, si adagia tra le braccia dell’eroina: come un naufrago in mezzo al mare, si lascia trascinare dalle onde in uno stato di totale assuefazione, sulle note di una delle canzoni più belle dell’album e di tutto il repertorio musicale dei Pink Floyd: Confortably Numb.
L’assolo finale è come un’ iniezione di adrenalina nelle vene che costringe Pink a un momento di lucidità.
Le voci del coro di The Show must go on accompagnano quello che sembra il risveglio da un lungo coma.
Alla consapevolezza fa posto la rabbia e, riprendendo tema e titolo della traccia d’esordio del primo LP, In the flesh è una canzone che parla del delirio del protagonista.
In un totale sdoppiamento di personalità, Pink sogna di essere un dittatore che troneggia sopra una folla urlante.
Sta impersonando tutto quello che ha sempre odiato e rigettato: la guerra che gli ha portato via il padre, l’autoritarismo degli insegnanti, l’onnipresenza della madre.
Le due tracce che seguono esprimono in pieno lo sdoppiamento.
I titoli sono antitetici: Run like hell rende l’idea della fuga di Pink da un passato segnato dalla colpevolezza di scelte che lo hanno condannato a chiudersi dentro al suo gigantesco muro psicologico.
Waiting for the worms rappresenta invece la staticità della situazione presente, la lusinga di adagiarsi nella comodità di quella condizione di isolamento che gli permette di condannare rabbiosamente tutto quello che lo circonda.
L’illusione sta svanendo. Ma dopo Stop c’è il momento del grande processo.
Di fronte alla figura di un gigantesco giudice, Pink, la cui esistenza si è sempre caratterizzata per un vuoto di affetti, comunicazione, sicurezza e una disperata ricerca di isolamento, viene condannato a rientrare nella società.
Nessuno ha il diritto di rimanere solo, la vicinanza delle persone è una condizione umana alla quale non ci si può sottrarre.
Il muro è finalmente stato abbattuto, lasciando dietro di sé macerie e detriti.
La sua costruzione è stata il frutto di un processo psicologico che spesso assale l’uomo: si cela, al riparo di sicure pareti di pietra, l’illusione di poter vivere lasciando fuori tutto e tutti.
L’abbattimento non è uno spettacolo a cui si assiste comodamente adagiati su delle poltrone rosse: è il frutto di un lungo e difficile processo interiore che sfocia in una lucida e consapevole volontà di compiere quell’atto.
La mattina del 10 novembre di trent’anni fa Berlino si risvegliava senza un muro che per anni aveva diviso in due blocchi il mondo intero: una barriera fatta di incomunicabilità, insicurezza e odio. “The Wall” dei Pink Floyd ci ricorda che questi sentimenti si riaffacciano continuamente nella nostra quotidianità stimolandoci a considerare che ci saranno sempre muri da abbattere, a partire da quelli che noi stessi tendiamo ad erigere.