Il suono metallico delle prime picconate date dai berlinesi a quel Muro, a pensarci bene, avrebbe potuto ricordare quello delle medaglie. Che fossero d’oro, d’argento o di bronzo, da quel pomeriggio del 9 novembre 1989 non contava ormai più nulla: simbolicamente, anche quei 519 titoli ottenuti alle Olimpiadi dalla Germania Est nei 21 anni precedenti finivano tra le macerie, esattamente come i pezzi che si staccavano dalla barriera, calpestati da gente che aveva atteso troppo per rivedere facce che facevano parte della stessa città, ma che dall’agosto 1961 vivevano in realtà in un altro mondo.
Fino alla caduta del Muro di Berlino, soltanto due Paesi avevano superato la DDR in termini di numeri di medaglie olimpiche. Erano gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che per circa un ventennio, sul piano sportivo, erano dunque paragonabili a «un paesotto poco più grande della Lombardia». A fare questo paragone, che rende immediatamente l’importanza dello sport per il regime socialista che controllava la Germania orientale, è Roberto Brambilla, giornalista e autore di ‘C’era una volta l’Est’.
Nel suo libro, Brambilla si concentra sul calcio per raccontare le vite degli sportivi che vivevano a Est del Muro, caratterizzate da molti aspetti in comune a prescindere dalla disciplina. D’altronde, nella DDR lo sport non era altro che «una vetrina eccezionale per mostrare la superiorità della cultura socialista sul mondo occidentale». I passaggi per raggiungere questo scopo erano pensati quasi scientificamente: si partiva dalla tenera età, con un sistema di reclutamento che poteva contare su moltissime strutture sportive e, ci spiega Brambilla, sulla fondamentale figura del talent scout. Come nel caso di Heike Drechsler, ex lunghista e velocista divenuta nota come ‘figlia del vento’ che «fu notata a 13 anni e segnalata dal professore di educazione fisica». Anche dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione, Drechsler ottenne due ori olimpici a Barcellona 1992 e Sydney 2000, vincendo anche il Mondiale di salto in lungo nel 1993, a testimonianza sia della lungimiranza degli osservatori della DDR che dei metodi innovativi e della grande preparazione fornita agli atleti sotto il regime socialista.
Il doping di stato, di cui ormai quasi tutto si sa, era l’ultimo gradino da far salire agli atleti per portarli verso l’élite. Brambilla ci spiega che si trattava di «una pratica istituzionalizzata», nata negli anni ’60 poiché ritenuta «la miglior forma di diplomazia» per presentarsi al mondo, specie a coloro che ancora non riconoscevano la Germania Est. Se l’aiuto chimico ha certamente gonfiato i risultati sportivi della DDR, e l’incredibile bilancio di 102 medaglie ai giochi di Seul 1988 ne è una prova evidente, fermarsi al doping vuol dire leggere in maniera semplificata il sistema socialista.
Le performance degli atleti della Germania orientale erano legate a una maniacale cura dei dettagli, sfociata anche nello spionaggio sportivo, che consentiva di prepararsi al meglio. L’emblema di questa programmazione, ci racconta Brambilla, è il caso delle Olimpiadi 1972, disputatesi a Monaco di Baviera e proprio per questo ancor più importanti per l’immagine della DDR: «In quei giochi, gli atleti della Germania Est fecero particolarmente bene in una disciplina, la canoa/kayak slalom (quattro ori). Non era un caso: da alcuni mesi si allenavano in un bacino che era l’esatta fotocopia di quello di Monaco».
Nell’agosto del 1961, il Muro di Berlino era nato per chiudere quella finestra sull’Ovest che, per via di controlli fino ad allora non particolarmente rigidi, era costata alla DDR la fuga di migliaia di lavoratori qualificati. Tra questi c’erano anche «calciatori della Germania Est che, soltanto qualche anno prima, erano scappati prendendo la metropolitana», come spiega Brambilla. Anche dopo la costruzione della fortificazione le fughe, seppur in numero nettamente minore, continuarono a esserci, anche nello sport, richiedendo però piani molto più complessi. È il caso di Axel Kruse, calciatore dell’Hansa Rostock che deve attendere una trasferta di Intertoto in Danimarca per fuggire con l’aiuto di un complice. Oppure di Lutz Eigendorf, che sfrutta un match dall’Ovest della sua Dinamo Dresda per infilarsi su un taxi amico a Gießen e farsi portare a Kaiserslautern, dove la squadra aveva appena giocato. Eigendorf è però diventato anche il simbolo delle difficoltà a cui chi decideva di scappare andava incontro: le circostanze della sua morte, avvenuta nel 1983, sono tutt’oggi poco chiare, ma l’incidente in cui perse la vita sarebbe stato voluto e provocato dalla Stasi per tradimento.
Se, come sottolinea Brambilla, le fughe dalla DDR rappresentavano «un grande danno d’immagine» a quello che da fuori doveva apparire come «il miglior Paese al mondo», è facile immaginare la gravità attribuita alle evasioni degli sportivi, parte cruciale di un sistema nel quale il regime socialista puntava e investiva moltissimo. Per evitare questi episodi, tuttavia, la Germania Est ricorreva soltanto raramente alle condanne a morte, ‘limitandosi’ più semplicemente a «renderti la vita impossibile». Nei casi estremi, chi veniva accusato di Republikflucht, ovvero ‘fuga dalla repubblica’, «poteva prendere anche 10 o 15 anni di carcere, e quando li terminava era fondamentalmente un reietto della società».
Come già accennato, però, interesse della DDR era spegnere le velleità di fuga sul nascere, agendo anche in questo caso in modo estremamente organizzato e su più fronti. Da un lato gli atleti venivano messi nelle condizioni migliori per fare sport, con prospettive di carriera, e comprati con quelle «cose che un cittadino medio della Germania Est non poteva avere: macchine, case e beni di consumo esclusivi». L’importanza degli sportivi a livello nazionale veniva inoltre celebrata in occasioni come le feste dello sport o le Spartachiadi, ritenute talmente prestigiose da richiedere, ad esempio, la partecipazione di Rüdi Glockner, arbitro della DDR che diresse la finale del Mondiale messicano del 1970 tra Italia e Brasile.
Lo spionaggio, ovviamente, era una componente altrettanto fondamentale del controllo esercitato sugli sportivi. Nelle delegazioni che accompagnavano le squadre di calcio, così come gli altri atleti, «c’erano vari informatori della Stasi», racconta Brambilla. Contrariamente a quanto si possa credere, queste spie non venivano comprate dalla DDR offrendo loro benefici personali, bensì in maniera molto più subdola: «Generalmente venivi avvicinato poiché ritenuto una persona affidabile, ma spesso anche perché scoprivano qualche tuo vizio inconfessabile». Il ricatto era dunque la porta d’ingresso nelle vite di questi informatori, che poi venivano puntualmente valutati per il loro operato.
A pagare per i problemi, però, erano anche i responsabili delle società sportive. Nel 1986, Klaus Sammer era allenatore della Dinamo Dresda che nei quarti di finale di Coppa delle Coppe si giocava il passaggio del turno contro i rivali del Bayer Uerdingen (oggi KFC Uerdingen). Dopo il 3-1 dell’andata in casa che profumava di semifinali, nel secondo tempo del ritorno la Dinamo era avanti per 1-3 prima di un inaspettato tracollo: con sei gol in poco più di mezz’ora il Bayer Uerdingen mise Klaus, che allenava tra gli altri anche il figlio Matthias Sammer, nei guai. Il tecnico fu infatti ritenuto responsabile non solo della sconfitta, ma anche della fuga di un suo giocatore: «A Sammer sostanzialmente dissero: ‘Fin quando ci saremo noi, tu non allenerai mai più’», racconta Brambilla. Detto, fatto: Klaus Sammer tornerà ad allenare soltanto nel 1992, a Muro caduto e Germania riunificata, di nuovo al timone della Dinamo Dresda.
Ancora oggi, in Germania si possono trovare tracce dell’eredità sportiva della DDR. Lo Sportforum Hohenschönhausen, utilizzato dalla Dynamo Berlino, è uno degli impianti costruiti durante il regime socialista; il RedBull Lipsia, uno dei club di Bundesliga cresciuti maggiormente negli ultimi anni, gioca i propri match alla RedBull Arena, che sotto l’antico nome di Zentralstadion ospitava le Spartachiadi, eventi pensati per inculcare negli atleti quella mentalità che li avrebbe dovuti portare a dominare la scena mondiale.
Memorie ed eredità di un periodo che, in ogni senso, ha spinto la Germania Est oltre i propri limiti, regalando anche successi insperati e impensabili, come il trionfo del Magdeburgo nella finale di Coppa delle Coppe del 1974 a spese del Milan di Trapattoni. O come le 519 medaglie olimpiche, un patrimonio che tutti, comunque, erano pronti a sacrificare pur di far cadere quel Muro.