A cura di Sara Bonafede
Dal 2010 ad oggi, in Italia, la superficie di terreno adibita ad agricoltura biologica è aumentata del 71%, il che significa 800.000 ettari in più. Del 59% è invece l’incremento di operatori nel settore, il che posiziona il nostro Paese al primo posto in Europa per numero di lavoratori coinvolti nel biologico ed al secondo per superficie agricola utilizzata.
Nel 2018 ha generato vendite per 3.562 milioni di Euro, con un aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. Questi dati impressionanti sono il segno di un mercato in continua crescita, spinto da una domanda sempre più esigente ed attenta alla qualità del cibo. La maggior parte degli acquirenti afferma di scegliere questi alimenti per ragioni legate sia alla propria salute, presumendo quindi che il biologico sia più sano e ricco in nutrienti, sia all’impatto ambientale.
Ma cos’è, veramente, il biologico?
L’’EU Regulation on Organic Farming definisce come tali i prodotti il cui processo di ottenimento avvenga nel rispetto dell’ambiente, senza l’utilizzo di fertilizzanti o pesticidi chimici, senza danneggiare e anzi contribuendo al naturale ciclo vitale dell’ecosistema. Le regole cui attenersi per ottenere e mantenere il titolo di biologico sono tante e riguardano ogni momento ed aspetto della lavorazione, della semina all’imballaggio, dal raccolto al riutilizzo dei rifiuti, fino al trasporto. Tuttavia, più che di veri e propri requisiti obbligatori, si tratta spesso di generali linee guida sulla strada da seguire.
Frasi come “scegliere le razze tenendo conto della capacità di adattamento alle condizioni locali, della vitalità e della resistenza alle malattie”, “gli animali, nella maggior parte dei casi, dovrebbero avere accesso ad aria fresca” o “ridurre al minimo l’impiego di risorse non rinnovabili e di fattori di produzione di origine esterna” non suonano esattamente chiare e inequivocabili.
Da un punto di vista nutrizionale, l’effetto di certe misure sulla nostra salute è ancora da definire. Certo è che l’utilizzo di prodotti chimici nell’agricoltura tradizionale può avere un impatto negativo sulla nostra salute, ma al momento la quantità presente non sembrerebbe rappresentare un pericolo per l’organismo. Guardando al contenuto di micronutrienti come vitamine e minerali, inoltre, verdure e frutta bio non presentano valori di molto superiori rispetto ai loro simili “industriali”.
La ricerca in questo ambito ha ancora molta strada da compiere, senza considerare l’interferenza di grandi compagnie ed interessi di privati che spesso la deviano e rendono difficile accedere a informazione di qualità ed oggettiva in materia. Certo è invece che il biologico può potenzialmente portare benefici alla Terra, sebbene sia necessario anche in questo caso fare delle precisazioni.
Il problema principale dell’agricoltura e dell’allevamento è che non esistono regole valide per ogni tipologia di territorio e di produzione, per via degli infiniti fattori che influenzano questi settori. Ogni ambiente ha un diverso ecosistema, il cui equilibrio ha esigenze particolari e la cui gestione ne richiede una conoscenza approfondita.
Prendiamo l’esempio dei tanto amati e instagrammabili avocadi.
“Ma io li compro bio!” Assumendo pure che le piantagioni bio di avocado siano gestite nella maniera teoricamente più biologica del mondo, è ormai risaputo che le distese di terra adibite a questo adorabile frutto grasso stanno devastando il Sud America, sottraendo terreno alle foreste, riducendo la biodiversità e contribuendo all’aridità dilagante, a causa della spaventosa quantità di acqua richiesta dagli avocado.
Senza arrivare a questi estremi, spesso produzioni tecnicamente ineccepibili finiscono con l’avere ricadute disastrose sull’ambiente. Quando si parla di sostenibilità alimentare, infatti, un elemento principale, spesso sottovalutato, è la conoscenza da parte del produttore e dei lavoratori del territorio. Sapere quali relazioni intercorrono tra animali e piante locali è un fattore fondamentale per poter intervenire in un’area senza spezzare i rapporti di interdipendenza che ne stanno alla base. Per questo motivo uno dei principali fattori da considerare nello scegliere un alimento è la grandezza dell’azienda di provenienza, perché in realtà piccole è più facile che si mantenga un contatto col territorio e quindi una conoscenza diretta.
In secondo luogo, anche la più pulita delle produzioni cade in fallo, spesso, quando si parla di packaging e trasporto. Passando per la corsia di un supermercato e afferrando una busta di banane biologiche, spesso ci imbattiamo in un prodotto tutt’altro che sostenibile. Nella loro bella busta di plastica, quelle banane hanno attraversato l’oceano direttamente dall’Ecuador, dove crescono rigogliose in sterminate piantagioni intensive.
Prive di pesticidi e additivi di qualsiasi tipo, certo, no OGM, certo, ma pur sempre invasive a livello ambientale. Il settore alimentare è un labirinto pieno di trappole, nel quale tenere conto di talmente tanti fattori da diventare spesso causa di ansia nel povero consumatore, fiero di aver speso quei due euro in più per una quinoa tricolore biologica e vegana.
Che il biologico possa contribuire a ridurre l’impatto ambientale è indubbio, ma perché esso abbia davvero senso e non sia soltanto un’etichetta attira hipster sarebbero necessari molti più controlli e molta più informazione. Da una parte, un’azienda che voglia diventare biologica dovrebbe essere guidata e monitorata per assicurarsi che, oltre all’applicazione delle regole generali, essa si attenga alle esigenze del territorio, d’altro lato il consumatore avrebbe diritto a una descrizione più dettagliata circa la provenienza di ciò che sceglie.
Certo è che, per il momento, l’assunzione di responsabilità da parte dell’acquirente di informarsi e tenere il passo con le infinite variabili del settore alimentare restano l’unica arma efficace per scegliere con cognizione di causa e non cadere in trappole quali gli occhi dolci dell’ avocado.