L’anima del Giappone sembra un vulcano sottomarino, invisibile ma capace di agire e di far sentire nel tempo le sue vibrazioni, ovunque e allo stesso modo in grado di rinnovarsi in ogni stagione della sua storia, mostrando intatto il suo fascino, proprio come i fiori di ciliegio tanto cari ai samurai.
Quando Nitobe Inazō scrisse Bushidō, forse non era consapevole di aprire una porta, una porta d’ingresso tuttora obbligata a chi si voglia avvicinare ad un’interpretazione autentica della cultura giapponese.
Già allora tutto ciò ebbe un grosso impatto internazionale, e finì per aprire gli occhi al mondo sul vero Giappone, al mondo e all’opinione pubblica che già alimentava su di esso quegli stereotipi o addirittura quelle macchiette dure a morire che rendono oggi persino un bambino delle elementari in grado di disegnare parimenti un cavaliere o un samurai.
Ciò che sorprende in questa fresca edizione è la chiarezza del linguaggio di Nitobe Inazō: son passati 120 anni eppure il suo stile, scontati gli ovviamente datati riferimenti culturali (cui si è ovviato con ottime e precise note) e stilemi, è fresco e limpido come quello della miglior saggistica odierna.
È un saggio che si legge d’un fiato ma che, come tutte le letture rare e preziose (e un libro ancora e più volte ripubblicato, dopo tutti questi anni, non può che esserlo) ti richiama sempre qualche pagina indietro, perché le sue parole si prestano a varie interpretazioni, sempre più profonde ad ogni rilettura.
Era ferma convinzione dell’Autore che l’etica giapponese, emersa da prescrizioni codificate da secoli, fosse nata grazie all’assimilazione dell’etica della classe guerriera, e quindi grazie alla generalizzata interiorizzazione dei principi del Bushidō. Tesi per certi aspetti controversa, c’è modo e modo di argomentare, e quello di questo peculiare Autore (sarebbe stato utile dedicare qualche pagina introduttiva alla sua singolare vita) denota una cultura sterminata, capace di mettere in campo parallelismi letterari tra Oriente e Occidente con una facilità e un acume sorprendente.
E così stupiscono i riferimenti incrociati tra l’epoca feudale europea e quella giapponese, tra la cultura del Cavaliere e quella del Samurai, e l’analisi meticolosa delle virtù che caratterizzavano l’esistenza di quest’ultimo, fin dalla più tenera età. Belle le pagine e le storie dedicate, ad esempio, al coraggio, alla capacità di rimanere freddi “nel fuoco della battaglia”. Si comincia a comprendere, come si diceva all’inizio, quanto i sentimenti e la spiritualità siano in Giappone un fiume carsico, da tenere saldamente sotto un roccioso autocontrollo che non lascia trasparire niente o quasi niente all’esterno.
Al di là dell’interesse specifico per i temi trattati, a colpire è questo sentimento pervasivo del tempo: Nitobe Inazō non vive sulla luna, e capisce che da quando il Giappone è stato forzato, dopo cinque secoli di feudalesimo, ad aprirsi ai commerci e alla modernità, i samurai sono diventati di punto in bianco come l’albatro della celebre poesia. Scrive l’Autore: “i porti vennero aperti e il feudalesimo abolito. I samurai dovettero cedere i propri feudi e in cambio ricevettero obbligazioni assieme alla possibilità di investire in imprese mercantili”. L’etica dei samurai non conta più e loro si trovano invischiati in un mondo che non conoscono: ma se la sua equazione è vera, intuisce l’Autore, nella loro caduta si trascineranno dietro anche l’identità millenaria di un Paese. Nulla di più profetico, per certi versi.
Esistono nel volume, come si diceva pocanzi, dei parallelismi folgoranti e inattesi, come quello tra Don Chisciotte e il comportamento del samurai, per non parlare di quelli tra l’etica cristiana e le Scritture e i testi storici orientali o delle analogie tra i concetti espressi nel Bushidō e quelli che animavano il pensiero di molti autori dell’Antichità greca e romana. E i rimandi proseguono e arricchiscono quasi ogni pagina del volume, e spaziano a tutto campo, se per introdurre il capitolo sulla spada del samurai si cita Maometto “La spada è la chiave del Cielo e dell’Inferno”.
Nitobe Inazō, conscio delle difficoltà del suo Paese, sembra voler in questo modo fornire agli occidentali degli strumenti di decodifica, dirci “siamo diversi ma uguali” e accendere dei fari prima che le due culture si scontrino e, inevitabilmente, quella economicamente e tecnologicamente più arretrata abbia la peggio.
Sa che per questo deve farsi capire da tutti e non lesina sforzi in tal senso: considerato il momento storico in cui scrive, compie una operazione ardita, proponendo di fatto l’equivalenza tra etica e religione (l’etica del Bushidō in Giappone e la religione cristiana in Occidente) quanto alla loro capacità di essere entrambe forza fondante di una nazione e di una cultura. Tesi molto spinosa e controversa, soprattutto all’epoca, e su tutte e due le sponde culturali cui l’Autore voleva rivolgersi.
Sente che i giorni di quel mondo descritto nel libro sono contati, e presagisce con evidente lungimiranza che questa accelerazione forzata della storia porterà delle conseguenze “Segni infausti presenti nell’aria lo fanno presagire. Non solo segni: forse terribili già in atto.”, ma allo stesso tempo riesce a farsi ascoltare molto in alto. Colpisce, alla luce di quanto di tragico accadrà di lì a qualche decennio che nella sua prefazione del 1905 Nitobe Inazō riporti di essere” enormemente lusingato di apprendere che il Presidente Roosevelt mi abbia fatto l’onore immeritato di leggerlo”, quando gli stessi Americani, alla fine del secondo conflitto mondiale, si convinsero (distruggendoli) che la causa del fanatismo nazionalista giapponese fossero proprio i libri che parlavano del Bushidō.
Toccanti anche le pagine dove l’Autore fa un’altra profonda considerazione: se la concretezza spietata della storia pone la sua inesorabile condanna su alcune idee e forme etiche, assai più lento è questo processo nel cuore degli uomini: e qui le parole del libro fanno venire alla mente i film di Akira Kurosawa e il lavoro appassionato di Yukio Mishima che mise in gioco la sua vita pur di richiamare lo spirito del Bushidō ai Giapponesi.