L’8 ottobre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha rigettato il ricorso dal governo italiano inerente alla decisione della stessa sul caso di Marcello Viola, ‘ndranghetista in carcere dagli anni Novanta per una lunga sfilza di crimini che gli sono valsi la condanna a ben quattro ergastoli. Nel respingere le istanze italiane, la Corte di Strasburgo ha confermato la propria posizione dello scorso 13 giugno, secondo cui il regime dell’ergastolo ostativo costituisce una violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dal momento che sottopone il condannato a trattamenti inumani e degradanti.
In seguito a tale decisione, come era del resto facile prevedere, si è sollevato un vero e proprio putiferio mediatico. C’è stato chi ha gridato all’ennesima ingiustizia da parte delle istituzioni europee, chi ha definito la sentenza ‘demenziale’ e un insulto alla memoria di Falcone e Borsellino, e chi diversamente l’ha ritenuta giusta e coerente con l’articolo 27 della nostra Costituzione, che prevede che le pene debbano «tendere alla rieducazione del condannato».
A vincere, come capita il più delle volte, è stata solamente la confusione. Proviamo allora a fare maggiore chiarezza sulle istanze specifiche della sentenza, per capire di cosa si tratta e quali potrebbero essere le sue conseguenze, tenendo anche conto del fatto che il prossimo 22 ottobre la nostra Corte Costituzionale si pronuncerà in merito all’ergastolo ostativo a partire dal caso Cannizzaro.
Innanzitutto è bene spiegare cosa si intende per ergastolo ostativo. L’ordinamento italiano prevede infatti due tipi di ergastolo, quello effettivo e quello ostativo per l’appunto.
Nel primo caso, laddove il condannato abbia dimostrato un evidente pentimento per i reati commessi e mantenuto una condotta detentiva regolare, ha diritto ad ottenere alcuni benefici quali permessi premio, semilibertà e liberazione condizionale. Il secondo tipo di ergastolo, chiamato anche ‘fine pena mai‘, è invece previsto per coloro che si sono macchiati di crimini particolarmente efferati (associazione a delinquere di stampo mafioso, terrorismo, sequestro a scopo estorsivo, ecc.), e non prevede alcun tipo di beneficio a meno che l’ergastolano non decida di collaborare con la giustizia o la sua collaborazione sia ritenuta irrilevante (ad esempio perché sono già state chiarite le circostanze del delitto).
Ora, cosa dice nello specifico la sentenza della CEDU? A leggere nel dettaglio le carte del provvedimento, ciò che emerge non è un attacco diretto allo strumento dell’ergastolo ostativo in quanto tale, dal momento che «la legislazione interna non vieta, in maniera assoluta e con effetto automatico, l’accesso alla liberazione condizionale e agli altri benefici propri del sistema penitenziario». Strasburgo, piuttosto, pone l’accento sul fatto che il nostro paese «lo subordina alla ‘collaborazione con la giustizia’».
Tale collaborazione è, per il legislatore italiano, l’indicatore oggettivo del rigetto dei valori criminali e della dissociazione dal gruppo mafioso di appartenenza da parte del condannato, oltre che l’elemento centrale ai fini del suo percorso di risocializzazione. Al contrario, la mancata collaborazione giustifica la presunzione inconfutabile della sua pericolosità sociale, e quindi la negazione dei benefici detentivi. Del resto, qual è il problema nell’esigere che un mafioso collabori con le autorità prima di poter accedere a suddetti benefici?. Ecco, qui casca l’asino, o meglio l’Italia, secondo la CEDU.
I giudici di Strasburgo mettono in dubbio la posizione italiana muovendo da due elementi. Da una parte viene evidenziato come la scelta di collaborare possa rispondere a esigenze opportunistiche del condannato per accedere ai privilegi previsti per legge, senza che rispecchi quindi una reale correzione da parte sua o la sua dissociazione effettiva dall’ambiente criminale. Dall’altra tale scelta non può sempre considerarsi ‘libera’, dal momento che spesso i detenuti rifiutano di collaborare con le autorità semplicemente per il timore di ripercussioni ai propri danni o a quelli delle proprie famiglie. Di qui, la sentenza dello scorso 8 Ottobre per cui l’Italia, negando a Viola i benefici detentivi a causa della sua mancata collaborazione, lo ha privato della possibilità di riabilitazione e della speranza di poter un giorno uscire di galera, violando la sua dignità umana e così l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ora, alla luce di quanto scritto, cosa possiamo leggere tra le righe di questa sentenza? Propongo tre spunti di riflessione, anche e soprattutto in vista dell’imminente decisione della Corte Costituzionale in merito al caso Cannizzaro.
Primo. La CEDU non sbaglia quando afferma che la collaborazione di un mafioso non presuppone necessariamente un suo reale pentimento. Ciò che però la Corte sembra perdere di vista è il ruolo storico-politico che il pentitismo ha avuto in Italia. Parlare non equivarrà sempre a pentirsi, ma forse rappresenta qualcosa di ancora più importante: significa rinnegare la legge mafiosa in favore di quella dello Stato. In questo modo si va a recidere definitivamente il legame dell’affiliato con la cultura criminale colpendola nel suo punto di forza, il silenzio. Un processo che per un mafioso risulta probabilmente più doloroso persino del pentimento, perché irreversibile. Ogni volta che un pentito parla, infatti, lo Stato in maniera incontrovertibile vince sulle mafie. Una regola fondamentale che il nostro paese ha appreso in tanti anni di stragi e attentati, ma che l’Europa può e deve fare propria guardando all’esperienza italiana.
Secondo. Le leggi italiane offrono un sistema di protezione ai collaboratori di giustizia e ai loro familiari. Tuttavia, se moltissimi di questi non collaborano per la paura di ripercussioni è bene che l’Italia prenda la sentenza della CEDU come uno stimolo a migliorare. La scelta di collaborare deve essere totalmente libera e garantita dallo stato, anche e soprattutto nelle sue conseguenze. Solo così sarà possibile favorire la collaborazione, tanto utile al paese nella lotta alle mafie quanto all’ergastolano nel proprio percorso di correzione e riabilitazione sociale.
Infine, questa sentenza, nonostante le polemiche che ha sollevato, deve portare ad una crescita tanto per l’Italia quanto per l’Europa. Non ci viene detto di abolire l’ergastolo ostativo né tantomeno il 41 bis, come qualcuno ha erroneamente paventato, bensì ci è stato suggerito di aggiornare il nostro regime detentivo in modo tale che non risulti inumano e in violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Dobbiamo sfruttare questa occasione per partorire una riforma che non sia utile ed efficace solo per la nostra nazione, ma che possa fungere da modello anche per quei paesi europei che non hanno ancora conosciuto il tocco mortifero delle mafie, ma che presto potrebbero doverci fare i conti. Iniziamo, magari già a partire dalla decisione sul caso Cannizzaro.
Solo così sarà possibile trasmettere agli organi europei la dovuta percezione del fenomeno mafioso, che è sì storicamente italiano ma che necessita di strumenti di contrasto comuni e condivisi internazionalmente per essere efficacemente affrontato.