Niente regole d’ingaggio, temi liberi e nessun limite di tempo per gli interventi. Non c’è stato alcun tipo di paletto ad arginare gli ottantadue minuti di lotta fra “animali” da dibattito. La politica italiana è ormai ridotta da tempo allo schermo dell’intimità, quello dello smartphone e del Pc, tuttalpiù intervallata con lo zapping distratto a cui ci ha assuefatto la perenne proposta dei talk show nei salotti politici. Da tempo non assistevamo a Un faccia a faccia tra leader politici. La dinamica televisiva del moderatore contornato da giornalisti avidi di domande s’era andata perduta nel profluvio di talk show imperanti per buona parte del quindicennio presente. Non è una novità la lapidaria e secca formula dell’uno contro uno proposta martedì in seconda serata dal sempiterno Vespa che mette a dialogo- si fa per dire- i due Matteo nazionali, ma una ricongiunzione con un percorso di storia della televisione che ha intercettato i bisogni politici e, perché no, la sete di sangue degli spettatori/cittadini.
Negli ’80 Minoli trovò la formula per portare nella modernità una RAI che necessitava di essere svecchiata, in preda a quel passatismo che portava ancora il nome di Tribuna Politica e che mai avrebbe potuto tenere il passo con le nascenti emittenti private; sembrò un fulmine di guerra quel giornalista televisivo che a ritmo di mitraglia teneva incollato lo spettatore alla televisione, tempestando di domande il candidato col suo ritmo sincopato che pareva uscito da un montaggio di Pekinpah. Mixer si chiamava la trasmissione, Faccia a faccia il capitolo-intervista che andava a chiuderla il lunedì, in prima serata. Interviste di quella capziosità incalzante, almeno nella televisione di stato, non se ne videro più.
Vennero poi fuori formule ibride che già avevano lo spirito del talk, forse senza coscienza, e certo non erano come questi il trionfo del nulla, anzi tutt’altro, né però poterono dirsi del tutto riuscite. Esempio storico in merito è quello che vide misurarsi civilmente Fini e Orlando, moderati da una giovanissima Lilli Gruber e da un grintoso- e meno giovane- Vittorio Zucconi, contornati da un pubblico scelto di politici e giornalisti militanti, per le neonate La Rete da una parte, Alleanza Nazionale dall’altra: Al voto al voto era il nome di un programma non passato alla storia che merita però una revisione in positivo nelle valutazioni di analisi di storia dei media.
Tutti hanno in mente poi il confronto classico Prodi-Berlusconi del 2006 di cui questo ultimo vuole forse essere in parte una riproposizione; quello in cui, per intenderci, una televisione dai toni algidi se non spenti vide il rimescolarsi e il rovesciarsi dei ruoli nel gioco delle parti, con il popolare Berlusconi che tentò di alzarsi di livello, laddove invece un professore di rango e fama internazionale quale il bolognese tentò di calarsi nelle logiche di un comunicatore seriale, atto a penetrare la più triviale fame del volgo. Berlusconi già era stato protagonista di un tête-à-tête di colossali portate di audience, quello che tutti ricordano volentieri per i toni pacati e ironici con quale si contrappose a un (fin troppo) sereno Occhetto, prontamente definito “zombie coi baffi”; a far da moderatore fu un Enrico Mentana meno eccitato di come si propone oggi, anzi dal ritmo e dai toni orientaleggianti, quasi compassati. Era il 1994 e Berlusconi aveva un senile doppiopetto grigio e strizzava l’occhio all’elettorato dell’ormai defunta Democrazia Cristiana.