‘Lucy in the Sky with Diamonds’ cantavano nel 1967 i Beatles, l’acronimo del titolo di una delle canzoni più famose della storia della pop music, rivelerebbe il sottotraccia del brano. L-S-D, come la molecola sintetica dell’dietilammide dell’acido lisergico, in grado di condurre chi lo assume al sogno psichedelico, il ‘trip’ che, a ben sentire, parrebbe descritto nella canzone.
Le insinuazioni su un presunto riferimento lisergico nel brano furono subito smentite da John Lennon, che si affrettò ad affermare che ad ispirarlo sarebbe stato un disegno di suo figlio Julian – e non LSD che McCartney aveva recentemente dichiarato pubblicamente di aver assunto. La giustificazione dei quattro ragazzi di Liverpool non tenne, tanto che pochi giorni dopo la canzone venne messa al bando dalla BBC, che non poteva tollerare insinuazioni di riferimenti a droghe psichedeliche.
Eppure negli ultimi anni, gli scienziati hanno riaperto la porta alla sperimentazione con queste sostanze. Perché parlare di terapie con sostanze psichedeliche nella cura di malattie psichiatriche? Perché una molecola come la psilocibina presente in natura ha degli effetti così sconvolgenti sulla psiche umana? Può essere che nel suo utilizzo vi siano quindi altre potenzialità oltre a quella di pura ‘droga ricreativa’?
La psilocibina ad esempio, è una sostanza chimica presente in natura in più di 200 funghi, tra cui i più importanti sono gli Psilocybe. È una triptammina, una molecola di carattere basico, che, agendo a livello farmacologico come agonista della serotonina, può essere considerato un naturale neuromodulatore, ovvero partecipa alla comunicazione e alla produzione di stimoli e attività nel nostro cervello. La sua assunzione, anche in piccolissime dosi porta ad avere visioni di incredibile intensità.
Negli ultimi anni, stanno fiorendo studi che indagano l’utilizzo della psilocibina per il trattamento della depressione, dell’accettazione del fine vita nei pazienti oncologici e per la dipendenza da alcool, in istituti come il Johns Hopkins Study of Psilocybin in Cancer Patients e la New York University.
Lo studio di questi trattamenti venne in realtà già avviato nei lontani anni ’50, per essere poi incentivato dall’entusiastico proselitismo di Timothy Leary negli anni Sessanta. Professore universitario di psicologia ad Harvard, una volta avvicinato agli psichedelici iniziò esperimenti che coinvolgeva gli stessi studenti e venne allontanato da Harvard nel 1963. Sentiva la missione di dover rivoluzionare l’intera società, invitando tutti i giovani a ‘turn on, tune in, drop out’ ‘accenditi, sintonizzati, abbandonati’. Quest’invito, in piena guerra del Vietnam, venne visto dall’establishment come una sommossa capace di sconvolgere l’equilibrio della società americana. Venne presto decretata la fine della ricerca sull’utilizzo della psilocibina, gravata anche dall’esagerato entusiasmo di alcuni ricercatori, ai cui studi mancava la giusta accuratezza clinica.
Oggigiorno, è complicato definire con assoluta certezza la validità scientifica della ricerca clinica sull’utilizzo di una sostanza come la psilocibina.
È praticamente impossibile effettuare uno studio in doppio cieco, ovvero uno studio in cui né il paziente né il medico siano a conoscenza se si stia assumendo la sostanza scelta o il placebo: nel caso della nostra ricerca chi assume il placebo comprende istantaneamente di non essere in un ‘trip’. Si delinea così l’importanza del set (l’ambiente in cui avviene il trip) e della setting (la possibilità di avere un terapeuta che ‘accompagni’ e ‘guidi’ il viaggio). Per definire in maniera sostanziale il possibile risultato dell’esperimento, è dunque fondamentale una seduta psicoterapeutica posteriore all’esperienza, ai fini di rielaborare e ordinare ciò a cui si è assistito.
Una singola seduta è in grado di cambiare drasticamente la qualità della vita in pazienti con depressione maggiore unipolare da almeno 18 anni.
I dati vengono da primi studi di Rolland Griffiths, professore di Psichiatria e Neuroscienze alla John Hopkins University da sempre interessato al tema della coscienza e degli psichedelici e Stephen Ross, psichiatra alla New York University che si occupa del tema del fine vita, pubblicati sul Lancet Psychiatry, sezione del Lancet, una delle più autorevoli testate medico-scientifiche, con un campionario molto ristretto di pazienti. Eppure, sono sorprendenti, soprattutto se comparati alla perdita di efficacia dei farmaci antidepressivi più utilizzati: gli inibitori selettivi della serotonina.
Ma come funziona la psilocibina e in che modo è in grado di curare la depressione?
La caratteristica del trip psichedelico, secondo l’inventore Aldous Huxley, inventore della definizione di trip, è quello di <<aprire le porte della percezione>>. Le testimonianze dei pazienti parlano di <<ricongiungimento alla Natura materna, assistere al momento del nostro parto, all’inizio o alla fine del mondo, sentirsi parte dell’universo nella nostra assoluta piccolezza e interezza>>.
La psilocibina ha un effetto ‘egolitico’, disintegra gli schemi mentali abituali del paziente. Le persone che soffrono di depressione maggiore o di dipendenza dall’alcool sono come incatenate in una gabbia, in un circolo vizioso potenziato dai collegamenti neurali che si stabiliscono e si automantengono nel cervello. Questo trattamento è in grado di allentare l’inibizione esercitata dal cervello sulla visualizzazione dei pensieri, permettendo la nascita di nuovi schemi mentali. Almeno, è questo che emerge dai resoconti dei pazienti che si sono sottoposti al trattamento.
Michael Pollan nel suo libro ‘Come cambiare la tua mente’ edito Adelphi nel 2019 racconta la storia di queste molecole presenti in natura, sfidando il lettore e la scienza stessa a una prova d’esame.
Saremo in grado di accogliere una terapia che pare così innovativa, così funzionale, capace di superare decenni di studi farmacologici sugli antidepressivi con una spesa per miliardi di dollari e risolvere alcuni delle patologie croniche più insidiose?
La psichiatria è pronta ad aprirsi al mistico, all’incompreso e forse incomprensibile?
E noi siamo pronti a riabilitare i funghetti, gli acidi e i trip?
Per ora, gli studi sono stati pubblicati su alcune delle più autorevoli testate mediche e farmacologiche, come il Lancet Psychiatry e Jama. Resta da comprendere quante possibilità ci siano di una conferma scientifica attraverso studi più ampli, quanto poi la società sia pronta a riabilitare queste molecole ad oggi illegali e ricreative, e quanto i ricercatori saranno più bravi dei loro predecessori nel non farsi prendere dall’entusiasmo mistico.
Magari risiede proprio in queste ‘magiche’ molecole la risposta ad alcune delle patologie più comuni del nostro secolo: ansia, depressione e dipendenze.
‘Turn on, tune in, drop out’.