Dove approdano sono, con varie sfumature, “migranti”, “profughi”, “extracomunitari”. Nei posti da cui partono sono invece harragas, quelli che bruciano. Nel fuoco, infatti, è marchiato il cambiamento del mondo mediorientale. «Bruciate le barche, non si torna più indietro!». Il primo di una sterminata schiera di harragas è stato Tariq ibn Ziyad, Tariq El Tuerto (il guercio) il condottiero berbero che nel 711 diede il via a otto secoli di presenza islamica nella penisola iberica. Appena sbarcato sulle coste andaluse disse ai suoi soldati di dare fuoco alle imbarcazioni che li avevano condotti sin lì, bruciando i collegamenti col mondo in cui avevano vissuto, per fare da testa di ponte per una nuova civiltà. Il 17 dicembre 2010, Mohamed Bouazizi, un venditore ambulante tunisino si incendiò con una lattina di benzina ed un fiammifero. La sua immolazione era un gesto di protesta contro le angherie della polizia locale. La sua morte – il 4 gennaio, dopo 18 giorni di agonia – una fiamma che ha acceso la rivolta in tutto il mondo arabo: per il suo funerale sono scese in piazza 5mila persone, nel giro di 10 giorni il presidente Ben Ali avrebbe abbandonato il Paese dopo 23 anni di regime.
Il fuoco della protesta lo alimentano anche le donne, fari della rivendicazione per i pari diritti, in una società che le relega in una posizione di subalternità. Sahar Khodayari aveva 29 anni ed era esperta di tecnologie informatiche. È diventata famosa come Blue Girl, perché era tifosa dell’Esteghlal, la squadra tutta blu di Teheran che gioca uno dei derby più caldi del Medio Oriente coi rossi del Persepolis. Un amore impossibile quello di Sahar, nell’unico Paese al mondo dove le donne non hanno accesso agli stadi. Neanche nell’Afghanistan dei Talebani vigeva un simile divieto: dietro pesanti burqa ed accompagnate da mariti o parenti maschi, per anni le donne hanno potuto – o più probabilmente dovuto – assistere a spettacoli come le pubbliche esecuzioni nello Stadio Olimpico di Kabul.
Pur di sostenere i suoi colori Blue Girl si è travestita da uomo. Lo scorso 12 marzo ha violato il divieto, varcando i tornelli dello stadio Azadi di Teheran per vedere la squadra allenata da Stramaccioni contro l’Al Ain, nella Champions League asiatica. Si è immortalata in un selfie che l’ha resa famosa come Blue Girl e che le è costato tre giorni nel carcere Gharchak Varamin. È stata poi rilasciata, in attesa di un giudizio da parte della Corte della Rivoluzione che l’avrebbe potuta condannare fino a 6 mesi di prigionia per «condotta apertamente peccaminosa». L’iter giudiziario si è interrotto il 2 settembre, davanti al tribunale di Teheran dove Sahar si è data fuoco per protesta. È morta una settimana dopo a causa delle ustioni di terzo grado che le coprivano il 90 percento del corpo. Non tornerà mai più in carcere Sahar, ma il suo sacrificio ha fatto sì che la sua sorte non tocchi mai più a nessuna tifosa iraniana.
Uno strappo alla regola era già stato concesso nei primi anni Duemila e in occasione dei Mondiali nel 2018, quando alle donne era stato concesso di entrare negli stadi per vedere sui maxi-schermi l’avventura russa del “team Melli” – in differita come da tradizione per permettere alle autorità di censurare comportamenti inappropriati alla morale islamica. Sporadiche concessioni di un regime che continua il bando nei confronti delle donne – più di 40 ne sono state arrestate dal 2018 per aver cercato di entrare in uno stadio. Ma il 10 ottobre è caduto un muro che durava da quasi 40 anni, quando nel 1981 venne posto il divieto alle donne di assistere ad eventi sportivi pubblici. La Fifa ha obbligato le autorità della Repubblica Islamica a concedere dei biglietti destinati alle donne per la partita tra la Nazionale maggiore iraniana e la Cambogia, valida per la qualificazione ai Mondiali 2022. 3500 donne hanno potuto entrare liberamente nello stadio dove è divampata la protesta di Blue Girl.
Anche le teocrazie devono arrendersi alla fiamma della passione per lo sport